– di Paolo Balmas –
Mentre il governo centrale cinese insiste nel promuovere gli investimenti green, specialmente nelle fonti di energia rinnovabile eolica e solare, i governi provinciali hanno approvato la realizzazione di una serie di impianti per generare energia elettrica a carbone per un totale di oltre 100 GW di potenza. Malgrado si tratti di una quantità elevata, non è poi molta se paragonata alla produzione totale cinese, che supera gli 8.000 TW (per fare un paragone, l’Italia nel 2022 ha consumato 316 TW). Nel 2022 sono cominciati i lavori per una parte di queste centrali che, secondo Bloomberg, produrranno un equivalente di 50 GW, cioè sei volte di più di quanto produrranno i nuovi progetti a carbone nel resto del mondo. Malgrado questo nuovo slancio verso il carbone, la Cina continua a essere il paese che investe di più al mondo in energia rinnovabile. Gli investimenti del 2022 nel settore del carbone lasciano intravedere una serie di apparenti contraddizioni, fra combustibili fossili ed energia rinnovabile, fra governo centrale e governi provinciali.
La divisione fra governo centrale e governi locali in Cina è una realtà politica fondamentale. I lontani osservatori occidentali si lasciano spesso affascinare dall’idea che la Cina sia un paese in cui il potere centrale è quasi assoluto e trasmesso attraverso una rete capillare di sedi di partito. Sebbene questa rete esista, fazioni e coalizioni determinano le regole del gioco. I gruppi di potere, spesso uniti da interessi che vanno al di là dell’appartenenza a una specifica fazione o corrente di partito, sono costituiti da elementi del mondo economico e finanziario che orbitano intorno al partito ma non ne fanno nemmeno parte. Inoltre, le esigenze dei governi provinciali possono essere ampiamente rispettate a Pechino per ragioni di equilibrio politico, proprio perché la Cina non è un sistema monolitico, ma un complesso miscuglio di realtà molto diverse fra loro.
La decisione di continuare a investire nel carbone ha origine in una serie di questioni e non solo nel bisogno di aumentare la produzione di energia in tempi relativamente brevi. Il settore rappresenta ancora l’origine di circa il 60% della produzione di energia elettrica in Cina. Milioni di posti di lavoro, soprattutto minatori, dipendono dallo sfruttamento del carbone che si concentra in alcune province. Abbandonare il carbone significa metterle in crisi economicamente e anche socialmente con perdite di posti di lavoro che i governi, centrale e provinciali, non possono permettessi. Inoltre, ragioni più contingenti e relative al cambiamento climatico, come temperature elevate e siccità hanno di recente creato problemi alla generazione di energia elettrica (specialmente da fonti idriche). Bisogna poi considerare che la Cina è in trasformazione e che i consumi di energia sono in aumento. Un cambiamento drastico della produzione non sarebbe possibile.
Le critiche che arrivano da tutto il mondo esterno, in Cina lasciano il tempo che trovano. Per la Cina, considerata ancora una economia in via di sviluppo, fermare la produzione di carbone vuol dire in parte frenare la crescita economica che già risente della crisi finanziaria in atto, delle politiche dello ‘zero Covid’, delle sanzioni che colpiscono prodotti strategici e soprattutto della trasformazione che i governi guidati da Xi Jinping hanno deciso di intraprendere. In Cina, inoltre, si conosce molto bene la realtà dei fatti relativi all’inquinamento atmosferico e il prezzo pagato della Cina stessa. Ospitare per oltre quattro decenni le fabbriche di tutto il mondo ha reso la Cina il paese con la maggior produzione di gas serra. Un prezzo pagato da tutti, ma soprattutto dalla Cina che ha inquinato irrimediabilmente sorgenti e corsi d’acqua in molte parti del paese. Infine, la Cina si paragona all’Unione Europea e agli Stati Uniti, i quali non hanno badato all’ambiente nelle loro fasi di sviluppo, per non parlare del fatto che gli Usa sono ancora di gran lunga i maggiori consumatori di energia se leggiamo le statistiche in chiave pro capite. In Europa bisogna riflettere su tali realtà. Le politiche di Bruxelles e degli stati membri stanno spingendo verso un continente a emissioni zero per il 2050 con obiettivi intermedi molto difficili da raggiungere entro il 2030 e il 2035. Sebbene l’intento sia nobile e per tale ragione condiviso, le dinamiche internazionali e i segnali di lotte politiche su questo argomento così delicato specialmente negli Usa e in Cina, ma non solo, lasciano pensare che l’Europa si ritrovi in una condizione insostenibile nei prossimi anni. Le dinamiche commerciali dei mercati degli idrocarburi (che dovrebbero essere abbandonati secondo i piani europei) lasciano intravedere invece nuovi meccanismi di dipendenza energetica. Purtroppo, non ci si può isolare e la via verso un mondo a emissioni zero deve essere percorsa in coordinazione con le forze esterne. Ciò non sta ancora accadendo.
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February 28, 2023
Economia, Notizie