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NATO summit

La Cina al centro delle preoccupazioni della Nato

December 2, 2022

Economia, Notizie, Strategia

– di Paolo Balmas –

Durante il summit della Nato a Bucarest (28-30 novembre 2022), gli Usa hanno suggerito all’Europa di prendere una posizione più dura nei confronti della Cina. È chiaro che l’Europa sia più preoccupata della questione ucraina, ma Washington ha voluto ricordare quali sono le priorità strategiche, specialmente nel lungo termine. Secondo gli Usa, l’invasione russa dell’Ucraina è un problema immediato, difficile da risolvere, ma non rientra nelle priorità dell’Alleanza atlantica. Emerge così una distanza fra America ed Europa che non lascia presagire un cammino semplice per l’Europa nei prossimi mesi, se non anni. Non solo in relazione alla Russia, ma anche riguardo alle posizioni di singoli stati membri dell’UE come Germania, Francia e Italia che sono riluttanti nel voler deteriorare i propri rapporti con la Cina.
I dirigenti della Nato hanno detto che è arrivato il momento di fare un passo avanti riguardo la Cina, di passare da “identificare” ad “affrontare” il problema. In altre parole, la Nato conferma ciò che gli alleati avevano stipulato lo scorso giugno a Madrid, quando avevano stilato un nuovo concetto strategico, definendo le sfide “sistemiche” che rappresenta la Cina. Questa ultima definizione ricorda molto la posizione presa dalla Commissione europea nel suo Strategic Outlook sulla Cina nel 2019, quando definì la Cina come collaboratore economico, competitor e “rivale sistemico” allo stesso tempo. Sin da allora, la Commissione ha cercato di assumere una posizione più dura nei confronti della Cina soprattutto in questioni commerciali, proponendo tra l’altro un nuovo sistema di monitoraggio delle acquisizioni di asset europei da parte di entità non europee (seppur il riferimento alla Cina non sia esplicito, è chiaro che i maggiori timori siano riferiti alle acquisizioni di asset strategici della Cina in Europa, specialmente riguardo ai produttori di semiconduttori italiani e tedeschi).
 
A tal riguardo, il capo della Nato, Jens Stoltenberg, ha sottolineato che la Cina non è un nemico, ma bisogna essere pronti a rispondere all’ammodernamento militare cinese, alla sua collaborazione con la Russia e al tentativo di controllare infrastrutture critiche in Europa. Quest’ultimo punto lascia molti interrogativi aperti. Prima di tutto, nei momenti di difficoltà delle ultime crisi finanziarie fra il 2008 e il 2011, i capitali cinesi sono stati più che ben accolti in varie regioni europee, dalla Grecia al nord Europa. Si pensi ad esempio al processo di privatizzazione del produttore nazionale di energia elettrica portoghese (Edp), che è stato acquisito dalla cinese Three Gorges. Si tratta chiaramente di “asset strategici europei”, ma nel momento del bisogno non vi erano acquirenti europei o americani disposti a investire miliardi per il futuro del Portogallo. La privatizzazione degli asset statali in Europa è una questione spinosa di cui non si parla tanto e cha va ben oltre la Cina. Si pensa che se gli scambi rimangono in Europa è meglio, ma la Brexit e altre dinamiche confermano che l’intreccio di proprietà in Europa potrebbe trasformarsi in un rischio nel futuro (si pensi alle proprietà tedesche delle ferrovie britanniche e dei porti italiani ad esempio).
L’Europa, fra crisi energetica, inflazione e politiche monetarie che non funzionano, si avvicina a una nuova crisi che potrebbe lasciare ampio spazio di manovra, a partire dal 2023, a capitali non europei. Le banche cinesi hanno già dimostrato di essere solide e di poter operare in momenti di crisi in Europa. La Bank of China con sede in Lussemburgo, ad esempio, ha partecipato al recovery plan europeo per sostenere le economie locali colpite dal lockdown del 2020 dovuto al Covid-19. Una crisi finanziaria ed economica in Europa potrebbe permettere a queste banche non solo di partecipare agli aiuti necessari per sostenere le economie locali nei prossimi mesi, ma anche di aprire canali di finanziamento per nuove acquisizioni (che non saranno disdegnate come molti invece vorrebbero). Si tratta di uno scenario possibile, malgrado ciò che sta succedendo in Cina, che ancora una volta viene descritta come sull’orlo del baratro. Questa volta, in particolare per le crescenti dimostrazioni dovute principalmente alle politiche restrittive della politica “zero Covid”. Ma come al solito, per quanto concerne la Cina, le notizie tendono a descrivere quanto c’è di negativo e non tengono conto dei processi storici.
 
La Cina non è sull’orlo del baratro, ma sta accelerando una trasformazione in atto da anni. Siamo arrivati al punto in cui i motori della crescita cinese e il suo vantaggio competitivo non sono più gli stessi che hanno permesso una crescita economica fenomenale negli ultimi quaranta anni. Il principale motore di crescita è stato il mercato delle costruzioni, dalle abitazioni, agli edifici civili, agli uffici, alle grandi infrastrutture. Lo spostamento della popolazione dalle campagne alle città è rallentato come la crescita della stessa popolazione. Ciò implica la necessità di spostare i grandi finanziamenti su altri settori, ma come è noto non ci sono altri settori che hanno un impatto così immediato sull’economia come quello delle costruzioni. Da qui un problema, molto grande ma non irrisolvibile. L’altro riguarda la trasformazione dell’economia domestica e in particolare l’aumento dei costi di produzione relativi alla mano d’opera (il grande vantaggio comparativo cinese). Tale forza non esiste più e tale cambiamento si associa con la volontà degli Usa di riportare le produzioni in casa (il decoupling, o detta alla Trump: America First).
È in questo clima di trasformazione che la Cina ha compreso di dover governare un passaggio molto delicato che prevede più apertura economico finanziaria verso l’esterno e un maggior controllo della popolazione. Così si è deciso di permettere al presidente Xi Jinping, una figura particolarmente forte e carismatica in Cina, di entrare nel suo terzo mandato (cosa che non è piaciuta a una parte della popolazione). La situazione è chiaramente esplosiva, con manifestazioni da un lato e campi per la quarantena allestiti in varie città dall’altro, mentre Shanghai (la più colpita dalle restrizioni) riparte con la maratona (diciottomila partecipanti), che era stata abolita per due anni a causa del Covid. Gli scioperi in fabbriche come quella della Foxconn di pochi giorni fa, si trasformano in perdite per società come Apple.
 
Le dimostrazioni aumentano anche nelle università, cosa che non accadeva, almeno in queste proporzioni, dai tempi di Tiananmen nel 1989. Allora la Cina stava cambiando il proprio ruolo nel mondo e nella storia, doveva dimostrare alle grandi economie occidentali che il Paese era solido e sicuro per gestire i capitali in entrata e assicurare una forza lavoro stabile e concentrata nelle città portuali dove le industrie occidentali avevano previsto di installarsi. Oggi le cose sono più complicate. Non solo bisogna assicurare la stabilità, ma si deve governare una trasformazione profonda dell’economia interna (fondata su export di prodotti nazionali, non più maggiormente stranieri e consumi interni, garantiti anche a operatori esterni). Si deve quindi garantire il funzionamento di un mercato, il più ampio del mondo sotto un’unica legge, agli investitori “reali” e finanziari che vi stanno entrando o reinvestendo, dalle grandi banche d’affari americane alle corporazioni come Tesla, Bosch, General Motors, Subway, Starbucks, eccetera.
L’ironia della storia si scorge nella ciclicità degli eventi. Per dirla alla Guénon, i cicli storici (lunghi o brevi che siano) si chiudono come sono cominciati. La reazione del governo cinese alle proteste del 1989 hanno aperto il processo di globalizzazione, reso possibile anche dal ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan e alla vittoria americana della Guerra Fredda. Oggi, le proteste in Cina e la guerra russa in Ucraina sembrano avere un effetto opposto sulla globalizzazione, almeno come è stata interpretata negli ultimi trentacinque anni. La gestione delle proteste in Cina e della guerra in Ucraina ci diranno molto su come saranno impostate le politiche “globali” per i prossimi decenni.

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