– di Paolo Balmas –
Nel 2018 la Cina ha smesso di importare, riciclare e smaltire una enorme porzione dei rifiuti mondiali di plastica, carta e stoffa. Per comprendere l’impatto di questo cambiamento bisogna considerare che nel 2016 la Cina aveva assorbito circa i due terzi di rifiuti di plastica a livello mondiale. Molti paesi, in particolare le grandi economie del G20, stanno facendo fatica ad affrontare le conseguenze della scelta cinese di bloccare le importazioni di rifiuti. Alcuni di questi paesi semplicemente non hanno le capacità e i mezzi per smaltire ciò che rimane dei loro consumi. I maggiori beneficiari di quel sistema che faceva affidamento sulla Cina erano il Giappone, la Corea del Sud, gli Usa, il Regno Unito e la Germania, e in misura minore ma sempre importante anche Canada, Australia, Francia e molti altri. Negli Usa si stanno riscontrando grandi problemi, specialmente a livello municipale. Rimane difficile comprendere il reale impatto sull’Italia. Dopo i cambiamenti nelle relazioni fra Usa e Cina nel 2017, con l’amministrazione Trump, la tempistica della scelta cinese lascia pensare che la questione dei rifiuti rientri nella guerra economica in corso.
Le stime suggeriscono che il mercato messo in moto nel 2018 da questo cambiamento è di oltre 500 miliardi di dollari solo per riorganizzare le rotte marittime e il trasporto dei rifiuti (trasformazione ancora in corso). Si cercano nuove destinazioni dove scaricare e lavorare i rifiuti. In una mentalità (post)colonialista, le imprese americane ed europee cercano di sviluppare il mercato di smaltimento in paesi lontani, specialmente nel Sud Est asiatico. Ad esempio, capitali privati britannici si sono riversati in Indonesia per la realizzazione di nuovi impianti di smaltimento e riciclo di materiali ‘difficili’, per lo più plastiche che attualmente non si possono riciclare. L’Indonesia e la Malesia sono due delle principali nuove destinazioni dei rifiuti. Sono state inondate di rifiuti a tal punto che i rispettivi governi di recente hanno emanato nuove leggi per limitarne l’ingresso. La scelta cinese porterà altre nazioni a dover smaltire circa 110 milioni di tonnellate di sola plastica entro questo decennio. Uno studio dell’Università della Georgia (Usa) ha calcolato che si tratta di una quantità pari a circa 335 grattacieli come l’Empire State Building.
Per il momento sembra che i paesi del Nord Atlantico stiano cercando il modo di esportare e smaltire i rifiuti in modo diverso. Almeno per alcuni materiali non si può più fare affidamento sulla Cina, la quale sta trasformando la propria economia interna e cerca di adattarsi a un ambiente internazionale sempre più ostile. Uno dei risultati è che i paesi occidentali stanno cercando di riciclare di più in casa, o semplicemente stanno accumulando rifiuti con l’impossibilità di smaltirli nella loro totalità (una situazione che potrebbe avere gravi ripercussioni nei prossimi anni). Probabilmente il blocco delle catene di valore durante la chiusura dovuta al Covid ha fatto la sua parte. Tuttavia, i trasporti non si sono mai fermati del tutto. I problemi della logistica dei rifiuti che sono emersi a partire dal 2018 hanno svelato tratti del mercato nero dei rifiuti. Nel 2020, navi piene di plastiche non riciclabili, che non possono prendere la via del mare, sono state rimpatriate (ad esempio in Australia). Malgrado i limiti imposti dalla Convenzione di Basilea, il mercato nero dei rifiuti si stima essere immenso.
Non è certo una storia nuova. Ricorda i patti fra industriali italiani e il governo somalo (alcuni parlano anche della Libia) negli anni Ottanta del Pentapartito, quando molti rifiuti tossici italiani, e non solo, venivano sotterrati nel Corno d’Africa. Impossibile quantificare oggi il volume di affari che ha raggiunto la gestione, lecita e illecita, dei rifiuti. Ma dato l’aumento straordinario dei consumi negli ultimi due decenni, si può immaginare che il volume di affari sia aumentato a misura. La quantità dei rifiuti prodotta è fuori dalla percezione del quotidiano. Alcuni stimano il trasporto totale di rifiuti oltre i confini nazionali solo al 4% dei rifiuti mondiali. Al di là di quelli che i paesi riescono a far uscire dai propri confini in modo illecito, anche una grande parte dei rimanenti è smaltita illegalmente. Il WWF, ad esempio, stima che nel Mediterraneo si riversano circa trentamila bottiglie di plastica al minuto e che le vie d’acqua sono ancora ampiamente utilizzate per attività illecite di smaltimento di ogni genere. In tutto il mondo i sistemi di riciclaggio e smaltimento sono in trasformazione, dalla Cina, alla Russia e altre grandi economie del G20 e oltre. I governi cercano di imporre le regole ai giganti del consumo come Procter & Gamble, Unilever, Coca Cola e molti altri, al fine di costringerli a utilizzare materiali riciclati (almeno per carta e plastica) e soprattutto per non introdurre sul mercato nuova plastica. Le grandi industrie si lamentano da anni che il processo è costoso. Seppur non sia di certo la causa principale, il costo attuale dei materiali riciclati viene indicato come uno dei motori del recente aumento dei prezzi di alcuni prodotti. La scelta della Cina di bloccare le importazioni dei rifiuti di altri paesi si inserisce in una più ampia trasformazione dell’economia mondiale. Che si tratti di guerra economica o meno, le grandi economie (soprattutto occidentali, ma anche il Giappone e la Corea del Sud) devono riconsiderare i propri sistemi di produzione, consumo e smaltimento. È chiaro che non c’è più una Cina capace di fornire forza lavoro a basso costo, di aumentare il numero di fabbriche straniere sul proprio suolo, e tanto meno di assorbire ciò che rimane dei consumi altrui, con tutte le implicazioni che ne derivano.
– Newsletter Transatlantico N. 22-2022
Iscriviti – solo 1 euro al mese!
June 20, 2022
Economia, Notizie