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Negli ultimi anni le amministrazioni Obama e Trump hanno respinto le pressioni di chi voleva aumentare il coinvolgimento militare americano in Siria, limitando l’intervento al contrasto dell’Isis con il minor numero di vittime americane possibile. Entrambi i presidenti hanno di fatto incoraggiato la Russia e l’Iran a fare il “lavoro sporco” contro lo Stato islamico, creando una situazione in cui l’influenza della prima è cresciuta nella regione, mentre l’impegno diretto della seconda ha dato luogo ad una presenza sul territorio siriano a cui difficilmente rinuncerà a breve. Aver speso soldi e sangue per difendere il governo siriano obbliga l’Iran a cercare di sfruttare la propria presenza nel paese per crearsi una rete in grado di contrattaccare in caso di scontro con i suoi nemici nella regione, a partire da Israele.
La risposta di Netanyahu è stata di cercare di eliminare le postazioni iraniane con la forza. Sono anni infatti che Israele conduce bombardamenti all’interno della Siria, con una media di un raid ogni tre giorni quest’anno. Prende di mira la fornitura di armi a Hezbollah e le infrastrutture militari utilizzate dalle forze iraniane. Di recente Israele ha cominciato a colpire gli alleati dell’Iran anche in Libano e in Iraq, giustificandosi con la necessità di fermare il nemico prima che sia in grado di agire in modo efficace.
Israele si trova in una posizione molto delicata. Si era opposto all’accordo nucleare con l’Iran voluto da Obama; anzi, Netanyahu ha perfino rivendicato di aver convinto Trump a ritirarsi. Ma ora la situazione è più pericolosa di prima. In risposta al ripristino delle sanzioni da parte degli Usa, l’Iran ha intrapreso una serie di passi per violare l’accordo, ed avvicinarsi gradualmente alla possibilità di sviluppare una bomba nucleare. L’obiettivo è di rispondere alle pressioni interne, e di rafforzare la sua posizione in vista di eventuali nuovi negoziati; in questo modo avranno qualcosa a cui rinunciare, senza dover arretrare rispetto alla situazione fissata precedentemente dall’accordo.
Il problema è che ora siamo a meno di un anno dalle elezioni negli Stati Uniti, e l’Iran non vorrà certamente dare a Trump la possibilità di cantare vittoria accettando nuove trattative; quindi la situazione diplomatica rimane congelata, mentre la Repubblica islamica prende dei passi che preoccupano parecchio Israele. Allo stesso tempo Israele non potrà trovare sostegno negli Usa per un attacco all’Iran, né con questo presidente – come con Obama – e molto probabilmente nemmeno nei prossimi anni, a prescindere da chi vincerà le elezioni americane del novembre 2020.
Dunque, ironicamente, l’accordo nucleare rappresentava la soluzione migliore per Israele: l’Iran non cercava attivamente di sviluppare la bomba, anche se mirava ad aumentare la propria influenza nella regione. Ora, invece, l’Iran soffre sì delle sanzioni, ma non ha alcuna intenzione di rinunciare ai suoi interessi vitali di sicurezza. Di conseguenza adotta una posizione più aggressiva per contrastare la rinnovata minaccia esterna, senza che si intraveda una soluzione soddisfacente a breve.
– Newsletter Transatlantico N. 32-2019
November 19, 2019
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