– di Andrew Spannaus –
In una lettera ai responsabili delle Commissioni Giustizia di entrambi i rami del Congresso Usa, l’Attorney General (Ministro della Giustizia) William Barr ha comunicato l’esito delle indagini del Procuratore Speciale Robert Mueller in merito alle presunte interferenze russe nelle elezioni presidenziali del 2016. La frase più importante della lettera, completa di citazioni dal rapporto e ripetuta in merito a più aspetti dell’indagine, è la seguente: “L’indagine del Procuratore Speciale non ha trovato che la campagna di Trump o qualsiasi individuo associato alla campagna abbia cospirato o coordinato con la Russia nei suoi sforzi per influenzare l’elezione presidenziale del 2016 negli Stati Uniti”.
Si tratta di un’affermazione netta, che il presidente ha subito salutato come un’assoluzione piena. Rimane invece l’incertezza sul tema dell’ostruzione alla giustizia – cioè della possibilità che il presidente abbia cercato di bloccare le indagini nei suoi confronti – perché Mueller ha deciso semplicemente di presentare gli argomenti dell’una e dell’altra parte, lasciando la decisione al Dipartimento della Giustizia. Barr non ha perso tempo, comunicando la sua determinazione a non procedere, in mancanza di prove “oltre il ragionevole dubbio”.
Negli ultimi due anni ho scritto e detto in continuazione che le indagini del Russiagate non avrebbero portato all’impeachment, e che si basavano, da una parte, su prove dubbie, e dall’altra, su un teorema essenzialmente di natura politica, e non giudiziaria. Riassumo brevemente i due aspetti.
Il rapporto di Mueller – che non sarà reso pubblico nella sua interezza, seppur i democratici si batteranno per ottenerne il più possibile – riafferma le accuse ai russi di aver rubato dati alla campagna elettorale di Hillary Clinton, un punto su cui dubbi significativi sono stati sollevati da tecnici esperti, che abbiamo spesso riportato. Poi c’è la Internet Research Agency di San Pietroburgo, che avrebbe utilizzato i social network in modo improprio per aiutare Donald Trump. Anche qui ci sono delle chiare esagerazioni, in quanto si tende ad accusare chiunque prenda una posizione non-mainstream sui social network di essere un agente di Vladimir Putin.
Questo non significa che la Russia non cerchi di influenzare la politica americana, ma si è lontani dal dimostrare che tali sforzi siano decisivi; è imbarazzante e pericoloso il tentativo di ascrivere la vittoria di Trump nel 2016 solo ad interferenze esterne. Che la Russia sia contenta di vedere maggiori divisioni nella politica americana è evidente; che ne sia la causa è un argomento assurdo.
L’accusa sottostante è sempre stata che Trump ha tradito – e vuole tradire ancora – il Paese, con la sua politica di apertura alla Russia. Non si tratta di una valutazione giudiziaria, in quanto non si è in tempi di guerra, ma di natura sostanziale, difatti volendo rimuovere dalle mani del presidente il potere di indirizzare la politica estera degli Stati Uniti.
Dunque quale effetto hanno sortito le indagini del Russiagate? Senz’altro il desiderio di Donald Trump di migliorare sensibilmente i rapporti con la Russia di Vladimir Putin ha sofferto fortemente. Le continue accuse, prese per verità da buona parte della stampa americana, sono state utilizzate come un’arma potente contro la Casa Bianca, riaffermando ad ogni occasione che la Russia va vista come il nostro principale nemico, e che di fronte alle “prove” di Mueller non si deve nemmeno discutere di altro; si ricordi, per esempio, il vertice di Helsinki, dove i contenuti delle discussioni sono passati in secondo piano rispetto alle polemiche dei giornalisti sulle elezioni del 2016. Le ripercussioni sono tutt’altro che secondarie, in quanto riguardano anche il confronto strategico tra i due paesi, con un aumento delle tensioni a livello militare.
Al presidente Trump non rimane tantissimo tempo prima delle prossime elezioni. Dopo l’estate la campagna elettorale comincerà a scaldarsi sul lato democratico, in preparazione delle primarie. Non sarà facile prendere iniziative forti in quel clima, seppur ci sia da aspettare qualche tentativo di ottenere vittorie diplomatiche significative prima del voto, vista la maggiore autonomia della Casa Bianca in politica estera rispetto alle questioni interne. Forse la fine delle indagini di Mueller incoraggerà il presidente ad accelerare su questo fronte.
Infine rimane il dilemma per il partito democratico. Dal momento dell’annuncio di Barr, molti politici hanno espresso il loro sgomento e anche la determinazione di concentrarsi ancora sulla questione “ostruzione della giustizia”, non disposti a perdere una battaglia politica su cui puntano da molto tempo. La loro posizione, però, è molto indebolita, e l’attaccamento alla questione russa potrebbe presto risultare meno attraente di fronte all’elettorato. La speranza – per il bene del paese – è che il confronto tra i due partiti ritorni sulla sostanza. Ci sono punti di forte contrasto tra Trump e i democratici, giustamente, mentre su alcuni temi stanno emergendo delle sintonie tra il presidente e i candidati “populisti” dall’altra parte. Al Paese gioverà discutere come affrontare i problemi di lunga data, dalle disuguaglianze alle sfide economiche globali, senza ricorrere continuamente alla gruccia del cattivissimo Putin.
– Newsletter Transatlantico N. 11-2019
March 29, 2019
Politica