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Nonostante le dichiarazioni provocatorie iniziali verso la Russia, gli attacchi aerei americani del 14 aprile sono avvenuti in linea con le intese militari in vigore con l’apparente nemico strategico. Sono state prese precauzioni per evitare vittime russe ed iraniane, rispettando la “linea di deconfliction (riduzione del conflitto)” stabilita negli ultimi mesi per evitare scontri tra i caccia occidentali e quelli russi.
Il Capo di Stato Maggiore Usa Joseph Dunford ha detto alla stampa che “abbiamo identificato specificamente questi bersagli per mitigare il rischio del coinvolgimento delle forze russe, e abbiamo utilizzato i nostri canali normali di deconfliction… per gestire la questione dello spazio aereo”. Dunford ha comunque tentato di negare ogni coordinamento diretto con i russi, ma i fatti parlano da se: i bersagli erano stati abbandonati qualche ora prima, e la Russia non ha azionato direttamente i propri sistemi di difesa. E’ evidente che l’azione è stata annunciata in anticipo, altrimenti le potenze occidentali non avrebbero corso il rischio di vedere i loro caccia abbattuti dai sistemi russi di difesa aerea. Sembra che gli Usa stiano sperimentando un nuovo tipo di guerra, quella che deve causare i minimi danni possibili con il massimo effetto mediatico.
Da un punto di vista strettamente militare, l’aspetto più sorprendente degli attacchi della scorsa settimana è rappresentata dalla risposta della difesa antimissilistica siriana. Secondo alcune stime i siriani sarebbero riusciti ad abbattere 71 dei 105 missili Tomahawk (TALM) sparati, utilizzando il sistema S-200 e i missili Buk, che sono comunque di vecchia generazione rispetto al sistema S-400, non attivato da parte dei russi in questo caso.
Questa percentuale, se confermata, avrebbe implicazioni clamorose in termini strategici. Il dato smentirebbe la narrazione che considera la Russia una potenza di secondo grado incapace di difendersi contro gli armamenti avanzati degli Stati Uniti. Stando ad alcune fonti militari, la tecnologia di difesa aerea russa avrebbe infatti superato quella americana da molti anni.
Un’altra notizia degna di nota è che l’Arabia Saudita ha risposto all’appello di Trump alle potenze regionali di assumersi delle responsabilità in Siria. Riyadh sta discutendo con Washington la possibilità di mandare le proprie truppe a sostituire quelle americane. Tuttavia le istituzioni americane sono ancora diffidenti, per esempio come considerare il ruolo saudita nello Yemen.
L’Egitto, invece, corteggiato dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton, ha respinto l’idea di mandare delle truppe. Il capo dell’intelligence egiziano Mohammad Rashad ha dichiarato che “le forze armate egiziane non sono mercenari [e non possono essere] affittate o ordinate da parte di stati esteri a dispiegarsi in certe aree”. L’Egitto – ha aggiunto Rashad – sostiene “l’unità dei territori siriani e il suo esercito nazionale”.
– Newsletter Transatlantico N. 13-2018
April 21, 2018
Notizie, Strategia