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Theresa May

Le contraddizioni della Brexit

August 3, 2018

Politica

(free) – di Andrew Spannaus –

Il governo britannico del Primo Ministro Theresa May si trova in una situazione difficile: deve gestire l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, cercando di bilanciare il sentimento popolare espresso nel referendum del 2016, con la volontà di buona parte dell’establishment politico di evitare cambiamenti forti e quindi procedere verso una rottura soft. In più c’è il problema delle istituzioni Ue, che non sono entusiaste dell’idea di fare grandi concessioni ai britannici, per non sembrare deboli rispetto alla posizione netta dichiarata in partenza.

Il problema nasce dal referendum stesso: quando David Cameron annunciò il voto, lo fece pensando di dare un colpo a chi lo criticava dentro il Partito Conservatore, certamente senza l’idea di dare luogo veramente al distacco dall’Europa. Gli elettori però avevano un’idea diversa, in quanto collegano l’Unione europea ai problemi della globalizzazione, in cui la classe media si indebolisce e aumentano le disuguaglianze, sempre a favore della parte più benestante della popolazione. Dunque oggi proporre una soft Brexit pone un dilemma di difficile risoluzione: come cambiare senza cambiare davvero, ma anche senza dare ulteriore linfa alle forze anti-establishment del paese.

Il problema principale è che buona parte della classe politica non concorda con la posizione espressa dagli elettori. Non semplicemente sul piano dei rapporti con l’Ue, in cui ci sono sicuramente differenze in merito alle strategie da adottare per il posizionamento del paese a livello strategico; il nodo vero è il modello politico-economico seguito da tutto l’Occidente, e dal Regno Unito in modo particolare dai tempi della rivoluzione di Margaret Thatcher. E’ la politica attuata nel nome del libero mercato, della deregulation del lavoro e dei servizi, dell’aumento del peso della finanza rispetto all’economia reale, dell’austerità, che ha alimentato – e continua ad alimentare – l’opposizione “populista” in tutto il mondo occidentale. Pensare di gestire la Brexit come un passaggio tecnico, un cambiamento dovuto a causa del referendum, ma senza un profondo riesame dei meccanismi dominanti ai tempi della globalizzazione, significa garantire tensioni continue, scontentando molti, ma anche aprendo la possibilità ad ulteriori successi degli outsider in futuro.

Le difficoltà della May sono palesi, ma per ora rimane al suo posto proprio perché la classe politica ha paura dell’alternativa, a cominciare da nuove elezioni che potrebbero portare ad un aumento dei consensi per Jeremy Corbyn, politico outsider che da sinistra riesce ad interpretare molto bene il disagio popolare.

I negoziati sulla Brexit continueranno ad essere difficili, perché l’esigenza di evitare interruzioni rischiose dei rapporti commerciali si scontra con il rischio politico di fare un cambiamento poco timido. Però il vero nodo non è la natura tecnica dei rapporti con l’Ue. Di difetti l’Europa ne ha tanti, di cui abbiamo scritto spesso. Ora il Governo britannico farebbe bene ad identificare il problema in modo più chiaro: le politiche della globalizzazione finanziaria e dell’austerità alla base della rivolta degli elettori. L’unico modo di gestire questa fase delicata della vita politica del Regno Unito sarebbe di prendere iniziative forti per contrastare gli effetti di queste politiche sulla classe media e bassa. Occorre dare un chiaro segnale di aver capito il problema, ma per l’establishment britannico questo significa accettare un serio cambiamento di rotta, che va ben oltre i dettagli del negoziato attuale con l’Ue.

– Newsletter Transatlantico N. 26-2018

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