(free) – analisi di Andrew Spannaus – La tentazione naturale è di giudicare i primi 100 giorni della presidenza di Donald Trump con paragoni ad altri presidenti passati, come il suo predecessore Barack Obama, o anche il personaggio che più ha dato significato a questo metro di giudizio, Franklin Delano Roosevelt.
Nel caso dell’attuale inquilino della Casa Bianca il metodo non funziona tanto bene, per vari motivi. Intanto perché, detto francamente, Donald Trump non ha vinto una maggioranza dei voti nelle elezioni dello scorso 8 novembre, e non si è nemmeno avvicinato ad un tasso di popolarità del 50%. Da questo punto di vista il suo livello di gradimento poco sopra il 40% è perfettamente coerente con il sostegno elettorale ricevuto alle urne nel 2016.
Non va oltre per motivi evidenti: il primo è che buona parte dei media sono molto critici nei suoi confronti. Può essere un atteggiamento legittimo, ma non si può negare che la tipica “luna di miele” non c’è mai stata, considerando la strada seguita da Trump per arrivare al potere. Ha fatto la guerra contro il proprio partito, contro i grandi media, e contro l’élite del paese in generale. Ancora prima di essersi insediato si è trovato in uno scontro senza precedenti con le agenzie d’intelligence, che hanno cercato di utilizzare il Russiagate dapprima per bloccare il suo insediamento, e poi per indebolire fortemente la nuova Amministrazione. E’ stata una battaglia – non ancora finita, ma in cui l’establishment ha segnato dei punti importanti nelle ultime settimane – che dentro l’America è ancora poco capita. La questione fondamentale infatti non sono gli errori di Michael Flynn o gli incontri con qualche ambasciatore; la battaglia vera è sulla direzione della politica estera statunitense, cioè se Trump riuscirà davvero a migliorare i rapporti con la Russia e spostare l’attenzione della Nato sul terrorismo, piuttosto che su una nuova Guerra Fredda.
Il rischio è di giudicare il presidente Trump con lo stesso metro utilizzato per altri, quando lui invece proviene da una rivolta populista alimentata di chi si sente fuori dal sistema attuale. Non significa che bisogna ignorare i suoi evidenti difetti e mancanza di esperienza politica, ma che il giudizio dei grandi giornali dell’establishment o delle reti televisive nazionali è meno significativo che in passato; Trump e i suoi non seguono certamente gli stessi ragionamenti del Washington Post, e se dovessero farlo significherebbe tradire i propri elettori.
Dunque come considerare i primi 100 giorni di Donald Trump? Ci sono due visuali possibili: quella di chi vuole vederlo “domato”, riportato dentro la politica accettata da buona parte delle istituzioni, e quella invece degli elettori arrabbiati che lo hanno mandato alla Casa Bianca, con un grande messaggio di protesta contro la classe dirigente di Washington, New York e Los Angeles.
Il presidente ha certamente fatto qualche passo indietro dalle sue posizioni originali, per esempio quando ha bombardato la base aerea in Siria, pensando di placare le pressioni istituzionali in merito alla questione russa. Finora si è vista anche poca sostanza per quanto riguarda la promozione delle manifatture e delle infrastrutture, in quanto la sua squadra non ha ancora sviluppato una posizione chiara. Per ora prevalgono le idee più tradizionali, come la riduzione delle tasse e delle normative.
E’ a dir poco ipocrita però sentire chi ha criticato Trump dall’inizio rilevare ora che non sta mantenendo le promesse di andare avanti spedito con il protezionismo, o con una nuova alleanza con Vladimir Putin. Buona parte delle istituzioni remano contro su questi temi, e lavorano anche per mobilitare l’opinione pubblica ad esercitare pressioni contrarie. La realtà è che gli apparenti passi indietro su questi punti fanno solo piacere all’establishment; basti vedere l’allegria di John McCain quando Trump ha bombardato il regime di Assad, allegria condivisa da buona parte del mondo democratico centrista, mostrando l’esistenza di una preoccupante alleanza ancora favorevole alla politica del ‘cambiamento di regime’.
Molti “trumpisti” difendono il presidente con argomenti deboli e strumentali: ha firmato tanti decreti esecutivi, ha nominato un nuovo giudice della Corte Suprema, sta andando avanti sull’abrogazione dell’Obamacare. Buona parte delle azioni sono su temi tipicamente conservatori, dove l’unico dubbio è se vinceranno i repubblicani più estremi o quelli un po’ più moderati. La vera questione invece è se Donald Trump darà seguito all’aspetto “rivoluzionario” della sua campagna elettorale. I temi sono due: il ritorno dell’economia reale, e una nuova politica estera basata meno sull’ideologia e più sugli accordi ancorati agli interessi americani.
Su entrambi i punti la battaglia è ancora aperta. Trump ha ritirato l’America dal Tpp, ma ora deve trovare una strada per attuare un protezionismo intelligente, in linea con la migliore tradizione americana, non per bloccare il commercio internazionale ma per tutelare i lavoratori e le produzioni di qualità, in contrasto con i bassi costi e lo sfruttamento scorretto attuato da molte grandi società negli ultimi decenni.
In politica estera il presidente pensa di essere in grado di gestire una partita complessa, mostrandosi forte e aggressivo laddove le conseguenze sembrano limitate, per poi negoziare dietro le quinte da una posizione di forza. Nel caso della Cina ha già portato a qualche risultato, passando per la Corea del Nord; per quanto riguarda la Russia invece la strada è lunga, e deve vedersela con una squadra di generali e diplomatici che di certo non condividono gli stessi obiettivi espressi da Trump in campagna elettorale.
– Newsletter Transatlantico N. 23-2017
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May 13, 2017
Politica