(free) – analisi di Andrew Spannaus –
La fine dell’ultima tregua in Siria ha dato il via ad una serie di recriminazioni tra gli Stati Uniti e la Russia, segnando un passo indietro significativo rispetto agli sforzi della diplomazia di cambiare registro nel rapporto tra i due paesi. I russi hanno accusato gli americani di aver bombardato intenzionalmente le truppe siriane, mentre gli americani incolpano i russi per la distruzione del convoglio degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite.
L’aumento della retorica nelle ultime settimane va visto nel contesto di un cambiamento più generale in atto nell’Occidente, e negli Stati Uniti in particolare. Il viaggio lungo la strada della diplomazia iniziata da Barack Obama e John Kerry sembra avvicinarsi alla sua fine, in concomitanza all’uscita di Obama dalla Casa Bianca. Ci sono forti pressioni delle istituzioni di intelligence e militari negli Stati Uniti per adottare un atteggiamento più aggressivo verso la Russia; si tratta di una tendenza in linea con quella espressa dai consiglieri di Hillary Clinton in materia di politica estera, creando una situazione in cui l’attuale presidente sta rapidamente diventando un’anatra zoppa sul tema più urgente per i rapporti strategici tra le grandi potenze.
Sono passati tre anni da quando Obama ha deciso di evitare una guerra diretta a Bashar al-Assad, accettando la mediazione di Putin per rimuovere le armi chimiche dalla Siria e cercare di allontanarsi dalla strategia del ‘cambiamento di regime’. Poco più di un anno fa è iniziata una nuova fase di questa “svolta diplomatica”, con l’intervento russo in Siria, che a dispetto delle dichiarazioni pubbliche di diffidenza, era stato discusso in anticipo tra Usa e Russia dietro le quinte.
Quest’anno si sono visti degli sforzi intensi per arrivare ad una collaborazione più diretta, fissando come traguardo una campagna di bombardamenti congiunti contro le forze terroriste dell’ISIS e del Fronte al-Nusra. Gli ostacoli erano evidenti: principalmente le differenze negli interessi strategici delle due parti, e la difficoltà di interrompere i meccanismi di sostegno occidentale per la cosiddetta “opposizione moderata”, in realtà apertamente coinvolta nelle operazioni dei gruppi più estremisti.
Prima dell’ultimo cessate-il-fuoco era stato già deciso di stabilire un Joint Implementation Center tra americani e russi, ma gli eventi tra il 17 e il 19 settembre hanno letteralmente mandato in fiamme le intenzioni delle parti.
John Kerry ha dichiarato che il bombardamento delle truppe siriane è stato un errore, e ha offerto subito di risarcire le famiglie delle vittime. Non mancano le voci – anche a Washington – che invece considerano l’attacco intenzionale, un modo di sabotare la collaborazione con la Russia. E non si può non notare la natura molto aggressiva delle accuse di Kerry alla Russia in merito al convoglio degli aiuti umanitari, quando l’ONU stessa non riesce a definire la dinamica dell’accaduto.
Il fatto è che questi eventi, tragici per i diretti interessati e anche per il processo diplomatico, fanno parte ormai di un processo più grande, un ritorno allo scontro tra gli Stati Uniti e la Russia, almeno nelle intenzioni di fette importanti delle istituzioni di entrambi i paesi. Non sono gli eventi singoli che determinano la politica delle parti, ma la politica delle parti che determina l’interpretazione degli eventi.
Nella Russia ci sono forze importanti nel mondo militare che accusano Putin di essere troppo accomodante verso gli Usa. Come abbiamo scritto il 20 maggio 2016 (“Putin tra i nazionalisti e la diplomazia”, n. 36-2016) i fautori di questa posizione credono che la Russia non sia preparata né militarmente né economicamente per fronteggiare la minaccia occidentale. Dunque mentre negli Usa si pensa che Putin voglia ricostituire il vecchio impero russo, dentro il paese stesso c’è chi si preoccupa che in verità il presidente sia andato troppo in là nel collaborare con il grande nemico che mirerebbe a sconfiggere la Russia militarmente.
Dalla nostra parte la situazione è simile. La narrazione generale delle istituzioni di sicurezza nazionale negli Stati Uniti è che Obama ha sbagliato a non far rispettare la famosa “linea rossa” dell’uso delle armi chimiche in Siria. Questo senza considerare i dubbi dell’intelligence sull’attacco chimico e l’evidente fallimento degli ultimi interventi militari in Medio Oriente. Il presidente si è speso troppo per la diplomazia con Putin, si dice, in realtà la Russia rimane il nostro più grande avversario.
Questo orientamento si percepisce non solo tra i think-tank e sulle pagine dei giornali istituzionali come il Washington Post. Ora le stesse forze armate stanno valutando come concentrarsi di più sulla minaccia russa. E’ in corso uno studio di alto livello in seno all’esercito americano su come meglio prepararsi alla guerra in Europa, dopo i successi della Russia in Ucraina. Il tenente generale H.R. McMaster, considerato un grande intellettuale nelle forze armate, sta coordinando lo sforzo per decidere come orientare il futuro dell’esercito, partendo dalla “Russia New Generation Warfare Study”, focalizzando l’attenzione sulla combinazione di capacità tradizionali come l’artiglieria e i carri armati – non più obsoleti, evidentemente – e i nuovi strumenti come i droni e la cyber warfare.
Insomma si moltiplicano i segnali di un ritorno allo scontro. Se è vero che la maggioranza del Pentagono e dell’intelligence remano contro gli sforzi diplomatici della Casa Bianca, e si preparano per il prossimo presidente, gli sforzi dell’ultimo anno potrebbero rivelarsi vani, peggiorando ulteriormente non solo la situazione in Siria, ma anche i rapporti Est-Ovest in generale. Si intravede un ritorno alla Guerra Fredda, ma ad un livello di tensione militare già altissimo, considerando gli incontri ravvicinati nel Mar Baltico, l’escalation di forze nel Mar Nero, e la presenza continua – seppur a rotazione – di truppe occidentali vicinissime ai confini russi. Se a questo si aggiungono i massicci investimenti per ammodernare gli arsenali nucleari, la visuale diventa ancora più preoccupante.
E’ difficile prevedere con esattezza le politiche di una nuova amministrazione presidenziale, ma la differenza di impostazione tra Barack Obama e Hillary Clinton è fin troppo evidente in questi mesi. La candidata democratica si distingue spesso dalla linea diplomatica dell’attuale presidente, e i suoi consiglieri lo fanno in modo ancora più netto.
Donald Trump invece parla di collaborazione con Putin, di fare accordi con gli avversari piuttosto che spendere trilioni di dollari per guerre inutili quando occorre ricostruire l’economia reale americana. Sono proposte che fanno innervosire parecchio l’establishment statunitense. Tuttavia, come abbiamo visto con il presidente attuale, ci vuole tempo e determinazione per cambiare la politica estera americana, soprattutto se buona parte delle istituzioni stanno già andando nell’altra direzione. Anche se Trump fosse eletto – e al momento non sembra probabile – è difficile dire quanto riuscirebbe a cambiare in tempi brevi.
Dunque le prospettive per il prossimo futuro non sembrano proprio rosee. Le forze che preferiscono un approccio più aggressivo verso la Russia stanno acquisendo maggiore influenza in vista della fine della presidenza Obama, e non sarà facile cambiare direzione.
– Newsletter Transatlantico N. 66-2016
September 30, 2016
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