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Dopo Parigi: la trappola, e la via d’uscita

November 18, 2015

Strategia

(foto: Barack Obama e Vladimir Putin al vertice G20 di Antalya)

(free) – di Andrew Spannaus –

 Gli attentati di Parigi spingeranno i paesi occidentali ad intervenire in modo più deciso contro l’ISIS, rischiando però di cadere nella trappola della risposta solo militare. Per cambiare la dinamica del terrorismo internazionale occorre aggredire alcune aree grigie: le connivenze con i gruppi estremisti sunniti che dura da decenni, e il mercato nero del petrolio e della droga. Sarà decisivo il processo diplomatico tra le grandi potenze per una soluzione negoziata alla crisi siriana, che coinvolga la Russia e l’Iran mettendo in secondo piano le rivalità geopolitiche.

Questo cambia tutto. Così sembra essere la reazione collettiva del mondo occidentale al massacro di Parigi. Un attacco di questo livello al cuore d’Europa ha cambiato qualitativamente la percezione della minaccia rappresentata dallo Stato Islamico, da un problema circoscritto all’area mediorientale e foriero solo di problemi indiretti per noi, ad un attacco diretto alla nostra vita.

Se Parigi rappresenta l’11 settembre europeo allora possiamo aspettarci dei cambiamenti significativi nella politica sia estera che interna. Basti pensare a come gli attentati in America 14 anni fa hanno determinato gli eventi per così lungo tempo, inaugurando la Guerra al Terrore che ha avuto effetti dirompenti su tantissimi aspetti delle nostre attività quotidiane.

Come rispondere a questo cambiamento di strategia da parte dell’ISIS, da una forza che si poteva sperare di limitare bloccandone l’avanzata territoriale, ad una rete terroristica internazionale che ora comincia anche a sferrare attacchi contro la vita e gli interessi delle grandi potenze?

Il primo istinto è di bombardare, di spianare tutto. I francesi sono partiti subito, con le bombe contro Raqqa per mandare un segnale immediato di forza e di volontà. Pure i russi, dopo aver accertato ieri che l’aereo della Metrojet è stato distrutto da una bomba, hanno aumentato i raid aerei contro l’ISIS.

Ma alla fine i governi sanno bene che “sconfiggere” l’ISIS non sarà così facile. La forza aerea da sola ha molti limiti contro un nemico che controlla il territorio direttamente. Certo, con le bombe dall’alto si può ridurre le aree controllate dall’ISIS a delle macerie, ma allora che ne sarà della volontà di non uccidere i civili? La guerra aerea, per quanto si parla di operazioni “chirurgiche”, provoca tantissimi danni collaterali.

L’alternativa sarebbe di lanciare delle operazioni via terra. Le decisioni prese dall’Amministrazione Usa dopo l’11 settembre 2001 portarono al dispiegamento di centinaia di migliaia di truppe in Afghanistan e in Iraq. Il Presidente Obama però ribadisce che non ha alcuna intenzione di inviare un numero significativo di soldati, ammonendo di “una ripetizione di quello che abbiamo già visto”. “Cosa succederebbe – ha chiesto Obama – se poi ci fosse un attacco terroristico partito dallo Yemen… o dalla Libia… o da qualsiasi altro posto nel Nord Africa e nell’Asia sudorientale? Dobbiamo mandare le truppe anche lì?”

Anche Putin, pur nella sua determinazione di cambiare le condizioni sul terreno in Siria, nega di voler mandare truppe di terra. Qualcuno pensa che lo farà l’Europa? I costi in termini economici e umani di un’occupazione militare sarebbero enormi, e quindi praticamente impossibili da concepire a breve termine.

Significherebbe anche cadere nella trappola tesa dall’ISIS: quella di facilitare la radicalizzazione dello scontro. Negli ultimi anni la strategia degli attacchi aerei sembra aver creato più terroristi di quanto ne abbia ucciso. Quali effetti ci saranno sulla popolazione musulmana nel Medio Oriente e anche qui nelle nostre società se saranno i paesi occidentali a guidare la guerra direttamente, con l’uccisione massiccia di civili? Siamo disposti a pagare quei costi?

Eppure l’ISIS va fermato. I governi si muoveranno subito, anche se qualcuno ammette che in questo caso una vittoria militare sarebbe solo relativa; nel lungo termine servirà anche una strategia politica e sociale per rimuovere il terrorismo alle radici.

D’altra parte è vero che abbiamo contribuito noi alla creazione dello stesso ISIS. Noi e la nostra politica di cambiamento di regime. A partire dalla guerra in Iraq si sono sconvolti i già precari equilibri della regione.

Non solo. Le forze estremiste che oggi ci attaccano hanno per lungo tempo potuto contare sul sostegno nostro e dei nostri alleati. Come abbiamo scritto spesso c’è un legame fin troppo diretto che parte dalla promozione dei combattenti in Afghanistan negli anni Ottanta per indebolire l’Unione Sovietica, e arriva all’emergere dello Stato Islamico in questo periodo. Per decenni si è fatto uso di forze estremiste per motivi politici, definendo terroristi solo quelli che non facevano i nostri interessi. Di recente questa strategia si è ritorta contro di noi in modo prepotente, tant’è che facciamo fatica a distinguere tra i nostri amici e la stessa Al-Qaeda, l’organizzazione che ha dato il via ai grandi attentati contro gli interessi occidentali.

Non è certamente la prima volta nella storia che gli errori strategici e tattici portano ad una guerra decisamente evitabile. Basti pensare agli eventi successivi alla Prima Guerra Mondiale in Europa, che crearono le condizioni per la Seconda. Dalle punizioni imposte alla Germania all’appoggio espresso da un parte dell’élite occidentale per il Nazismo e il Fascismo, ci sono tanti esempi di errori che contribuirono a creare il mostro che ci trovammo poi costretti a distruggere; al costo di decine di milioni di vite umane.

Dunque oggi occorre fermare l’ISIS, ma non è così chiaro come si intende farlo in tempi brevi. I bombardamenti sono in corso e aumenteranno, ma le nazioni occidentali non sono ancora pronte ad impegnarsi in una guerra su vasta scala.

L’idea di armare e mandare avanti la famosa “opposizione moderata” in Siria è sempre stata una fantasia. Allora chi farà la guerra all’ISIS?

La risposta è evidente: deve esserci una collaborazione tra i paesi della zona, e devono essere coinvolti direttamente l’Iran e le forze dello stesso governo siriano, oltre alla Giordania e all’Egitto. La coalizione anti-ISIS che già esiste deve essere potenziata e fornita del sostegno necessario per condurre la battaglia.

Per fare questo però occorrono due passi in avanti molto importanti: la fine delle connivenze con i gruppi estremisti, e un accordo diplomatico per collaborare con la Russia e l’Iran.

Sul primo punto abbiamo scritto tanto recentemente. Ci sono delle vaste aree grigie che vanno aggredite, a partire dal ruolo dei paesi che hanno finanziato e assistito i gruppi terroristici in prima linea: l’Arabia Saudita, la Turchia e il Qatar. L’Occidente deve essere chiarissimo sul punto e fare tutte le pressioni necessarie. Non sarà facile perché ci sono non pochi negli Usa e in Europa che vedono ancora l’Iran e la Russia come problemi maggiori del terrorismo, anche a costo di sostenere di fatto le formazioni estremiste. Si consideri la posizione espressa più volte dal Premier israeliano Benjamin Netanyahu: tra i due mali meglio gli estremisti sunniti (ISIS e Al-Qaeda) che Assad e l’Iran.

Se siamo seri nel volere sconfiggere l’ISIS e Al-Qaeda è ora di porre fine a questo atteggiamento. Gli strumenti di pressioni per influenzare paesi come l’Arabia Saudita sono tanti, se scegliamo di utilizzarli. Il primo potrebbe essere di svelare finalmente i contenuti delle 28 pagine del rapporto del Congresso sull’11 settembre. La verità sarà scomoda, ma in questo momento potrebbe anche essere molto utile.

Una seconda area grigia è quella del mercato nero. Pochi giorni fa l’aviazione americana ha bombardato un gruppo di camion cisterne utilizzate per trasportare il petrolio dentro il territorio controllato dallo Stato Islamico. Ci sono stati anche numerosi attacchi alle infrastrutture di trasporto energetico nell’ultimo anno, evidentemente insufficienti.

Per fermare le fonti di reddito dell’ISIS occorre un’azione decisa per sgominare il mercato nero del petrolio tra la Siria e la Turchia, e della droga che si estende fino all’Afghanistan. Un componente importante è rappresentato anche dal riciclaggio dei proventi della droga che forniscono la liquidità ai trafficanti e ai loro fiancheggiatori, ricordando che molte rotte finiscono proprio nella nostra Europa.

Sono problemi grossi e di lunga data, problemi difficili da affrontare perché si sviluppano in territori difficili da controllare. Ma il primo passo è di decidere politicamente di affrontarli, e di togliere le ambiguità che frenano gli sforzi. Ci sono interessi enormi dietro a queste ambiguità, ma se non ora, quando?

L’altro tassello è l’accordo diplomatico che coinvolga la Russia e l’Iran. E’ un processo già in atto, che sembra pronto ad un’accelerazione in questi giorni.

L’intesa annunciata a Vienna sul processo politico in Siria riflette l’urgenza posta dagli attentati di Parigi. Se fino a pochi giorni fa gli Usa e altri erano restii a “darla vinta” a Putin ora si sono trovati più spazi di collaborazione, come dimostrano gli incontri e le dichiarazioni al G20 di Antalya. L’accordo parla di negoziati tra il governo e l’opposizione e di elezioni entro due anni. Il ruolo futuro di Assad è stato de-enfatizzato e sono emerse numerose indicazioni di collaborazione più stretta, per esempio al livello di intelligence.

Queste misure non garantiscono una vittoria veloce contro lo Stato Islamico, ma se confermate nei fatti nelle prossime settimane potranno cambiare la traiettoria della situazione attuale. Non possiamo ignorare che ci sono interessi diversi tra le grandi potenze, però se si continuerà a preferire una visione di scontro strategico Est-Ovest rispetto alle necessità di intraprendere azioni comuni, allora tutte le parole pronunciate in questi giorni rischieranno di essere vuote; e tutti noi rischieremo di dover convivere a lungo con una minaccia sempre più inquietante.

– Newsletter Transatlantico N. 83-2015

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