(free) – Testo dell’intervento di Andrew Spannaus al convegno del 2 marzo 2015 organizzato dal Gruppo Uffici Stampa Lombardia con l’Ordine Nazionale dei Giornalisti e l’Unione Artigiani Milano e Monza Brianza: “L’etica dell’informazione economica tra diritti e doveri”
Vorrei parlare della sfida che la crisi attuale pone a chi fa informazione e analisi economica. Da qualche anno ci troviamo in una situazione particolare: è stata attuata una politica fiscale che ha volutamente depresso il mercato interno, ma allo stesso tempo le istituzioni hanno convinto tutti che le “riforme strutturali” avrebbero innescato ben presto un ritorno alla crescita.
Così da anni aspettiamo tutti la ripresa a breve, ma si continua a rimandare la data: la recessione doveva finire a fine 2012, poi nel 2013, poi nel 2014, e adesso gli esperti ci assicurano che la ripresa è in atto.
Speriamo che sia così, ma mi fa specie vedere che oltre un certo orizzonte temporale le previsioni economiche sono sempre positive. L’anno scorso doveva esserci un dato positivo del Pil; poi verso la fine dell’anno ci si è accorti che in realtà la crescita non era arrivata. Dunque gli istituti hanno aggiustato i numeri a breve termine, ma lo scenario a medio–lungo termine è sempre positivo. Si presuppone che le cose miglioreranno, quella è la posizione di default. Succede il contrario? Fa niente, le previsioni positive rimangono, solo che vengono spostate in avanti.
Allora, anche a me piace vedere il mondo con ottimismo. Spero proprio che le cose miglioreranno grazie all’inversione di tendenza, verso una politica fiscale almeno leggermente espansiva – se regge, che non è scontato. Quello che mi preoccupa è come gli assunti del pensiero economico attuale influenzano l’informazione che viene trasmessa al pubblico.
Mi spiego: nella primavera del 2012 partecipai ad un dibattito con un professore di economia della Bocconi. Lui rassicurò tutti che la ripresa sarebbe arrivata dopo circa 6 mesi, perché le banche centrali stavano pompando liquidità nel sistema. Io non ero convinto e mi permisi di fare una previsione contraria.
Naturalmente io – che non sono certamente un professore di economia – ebbi ragione, a grande sorpresa di alcuni.
La differenza era negli assiomi, gli assunti su come funziona l’economia.
Il modello standard di oggi dice che se si fornisce più liquidità ai mercati allora ci sarà un aumento del credito, degli investimenti e dei consumi. Ormai però dovrebbe essere evidente a tutti che questo meccanismo non funziona come previsto. Le banche centrali hanno fornito quantità enormi di soldi al settore finanziario, ma sono rimasti lì, nel settore finanziario, ad alimentare nuove bolle e a coprire vecchi buchi.
I motivi sono evidenti per chi guarda con attenzione: ci sono le regole di Basilea, i nuovi requisiti di capitale, ecc. E soprattutto c’è stato il calo della domanda a causa dell’austerità.
Non ha funzionato, ma piuttosto che affrontare gli aspetti sistemici, cosa si fa? La stessa cosa: ora viene lanciato il Quantitative Easing. Perché c’è la convinzione che deve per forza funzionare, sempre sulla base degli stessi assunti.
E qui arriviamo al problema strutturale: oggi la politica economica che esce dalle università e dalle istituzioni si basa su una concezione che spesso non risponde alla realtà del mondo.
Per semplificare, si dice essenzialmente questo: le riforme strutturali – cioè l’austerità e le liberalizzazioni – permettono di risanare il bilancio e di creare le condizioni per la crescita. L’efficienza è l’obiettivo principale; se solo creiamo le condizioni in cui il mercato possa allocare i capitali in modo libero ed efficiente allora l’economia non può che crescere.
Nella realtà però questa visione si è dimostrata ripetutamente errata.
Senza andare lontano bastare guardare gli ultimi quattro anni qui in Italia, per non parlare del caso più drammatico della Grecia. Di fronte alla crisi l’Ue e i relativi governi si sono mossi per attuare tagli della spesa e aumenti delle imposte. Ha migliorato la situazione?
Con l’austerità si riesce a ridurre il debito pubblico? Finora sembra che sia proprio il contrario; è interessante infatti la proposta della Grecia di ripagare il debito solo quando ci sarà la crescita del Pil.
Per fortuna ormai molti si accorgono che l’austerità non funziona; ma non doveva essere evidente anche prima? Per caso i programmi di aggiustamento strutturale del Fondo Monetario Internazionale – che utilizzano una formula molto simile – sono stati un successo nei paesi dell’Africa e dell’America Latina?
Oppure possiamo tornare indietro agli anni Novanta, il culmine del processo di deregulation iniziato nel decennio precedente. Furono riscritte le regole dell’economia di molti paesi, riducendo il ruolo dello stato e aprendo sempre di più al mercato finanziario.
In Italia ci furono le privatizzazioni e la riorganizzazione del settore bancario; in America la deregulation accelerò fino al punto dell’abrogazione ufficiale della legge Glass-Steagall, la separazione tra le banche commerciali e quelle d’affari, un passo significativo sulla strada verso il crac del 2008.
Fu allora che si posero le basi per la crisi di questi anni; fu allora che cominciò a crescere in modo rapido la disuguaglianza di cui molti si accorgono solo oggi.
Eppure negli Usa gli anni Novanta sono considerati ancora un periodo di grande crescita. E in Europa sentiamo parlare ancora di “riforme strutturali” in modo incessante. Ma se queste riforme strutturali sono la continuazione, o meglio l’accelerazione della politica degli ultimi vent’anni, forse faremmo meglio a rivedere il modello, e così non saremo sorpresi quando le cose vanno in modo diverso.
Fin qui ho presentato una critica al modello del cosiddetto “libero mercato” – dico cosiddetto perché in realtà oggi si tratta di un dirigismo verso certi settori dell’economia, i settori dominati dai grandi capitali.
Ma la domanda da porre è perché succede tutto questo. Perché non si riesce a superare questo problema di un’ortodossia economica che pur fallendo rimane egemone sulla politica.
Da una parte c’è il problema di un modello che ha forti radici nel mondo accademico e politico; se la formazione viene fatta su quelle basi non è difficile capire perché le persone guardano il mondo sempre da un certo punto di vista.
La conoscenza storica del modello riuscito del dopoguerra, o anche di periodi precedenti, è stata sostituita da una nuova ideologia – o almeno da una forma nuova di una vecchia ideologia nel mondo economico.
Ma c’è anche un altro livello: quello degli interessi che riescono a condizionare l’informazione. Sappiamo tutti che molte testate hanno un editore che stabilisce una certa linea. Se guardo Fox News negli Stati Uniti non sentirò certamente una posizione progressista né dai giornalisti né dai commentatori; e viceversa per chi ha una linea diversa.
La questione va oltre però, alle pressioni di tipo strategico, che vengono sentite da gran parte dei media mainstream, cioè quelli più diffusi e accreditati.
Oggi queste pressioni riguardano principalmente la necessità di sostenere l’Unione Europea.
Fino a poco tempo fa chi faceva una critica forte alla politica economica europea veniva spesso ignorato e tenuto fuori dal dibattito pubblico.
Solo i partiti più estremi erano “euroscettici” e dal Presidente della Repubblica in giù si parlava continuamente della necessità di evitare queste ‘derive pericolose’. E come se criticare la politica dell’Euro volesse dire automaticamente chiedere la dissoluzione dell’Unione Europea e il ritorno alle guerre del passato.
A prescindere dalla posizione di un specifico partito o personaggio, che può essere più o meno condivisibile per vari motivi, la domanda è: è permesso mettere in discussione la concezione economica che domina in Europa, da almeno il Trattato di Maastricht in poi?
Da un paio di anni si parla di più flessibilità nei parametri, ma siamo ancora lontani da un riesame dei principi di base: la concorrenza e le liberalizzazioni come pilastri di un’economia sana, contrapposte alle regole restrittive e al protezionismo (ecco una parola che fa ancora paura); il ruolo dello Stato, l’indipendenza delle banche centrali, ecc.
Come giornalisti dobbiamo essere disposti ad interpretare la realtà anche a costo di toccare delle vacche sacre. Credo che sia necessario un dibattito pubblico su questi temi, piuttosto che un atteggiamento che considera la critica di questo tipo pericolosa per il sistema.
Prima di concludere vorrei utilizzare un esempio che non riguarda l’economia direttamente: quello della crisi ucraina.
Cresce la consapevolezza che dalla parte di Kiev ci sono dei gruppi di estrema destra molto problematici, alcuni dei quali sono apertamente neo-nazisti.
Questi gruppi hanno avuto un ruolo chiave nel trasformare la protesta pacifica del Maidan in uno scontro violento che infine portò all’estromissione del presidente Yanukovich nonostante l’accordo raggiunto insieme ai 3 ministri degli esteri europei quasi esattamente un anno fa, il 21 febbraio 2014.
Oggi alcuni di questi gruppi sono rappresentati da battaglioni che combattono i separatisti nella parte orientale del paese. Ci sono membri del Battaglione Azov per esempio che portano la svastica sul casco, sull’abbigliamento.
Qual è il peso di questi gruppi per il governo ucraino? Io non sono in grado di dirlo con precisione, ma se ci sono gruppi neonazisti che fanno guerra in Europa credo che sia una notizia degna di essere seguita.
Eppure se ne parla pochissimo. Perché? Perché c’è un interesse strategico. Il governo ucraino è dalla nostra parte nella battaglia contro l’aggressore Putin, quindi chi dice queste cose sembra voler mettere in discussione la posizione occidentale. La pressione per ignorare certi aspetti della realtà è forte.
Questo “imperativo strategico”, della necessità di rafforzare il blocco occidentale tocca anche l’economia. C’è un legame diretto con un grande tema economico in arrivo: il TTIP.
Sono in corso i negoziati per il nuovo accordo commerciale tra gli Usa e l’Europa, ma come si sa sono segreti; alcuni documenti sono stati pubblicati grazie al Parlamento Europeo, ma fino ad ora siamo stati costretti ad affidarci ad informazioni molto incomplete.
Il TTIP si basa su quegli stessi pilastri che ho citato prima: la libertà di mercato, la riduzione delle protezioni economiche – anzi, andrei oltre dicendo che i grandi accordi commerciali nascono nel segno della competizione sui bassi costi.
Bisogna discutere quanto conviene andare avanti in questa direzione, e a chi conviene.
Quali settori beneficeranno, quali perderanno, e soprattutto chiedere se sarà positivo per l’economia a livello complessivo; o se per esempio andrà a beneficio soprattutto delle grosse imprese e quindi rappresenterà un ulteriore allontanamento del modello sociale di mercato europeo. (se questo esiste ancora)
Ma io temo che questo dibattito sarà molto parziale, che ci saranno forti pressioni per enfatizzare i vantaggi e minimizzare gli svantaggi.
Sono stato a Bruxelles qualche settimana fa ad intervistare un alto funzionario della Nato, un tale Jamie Shea. Quando gli ho chiesto del TTIP ha risposto in questo modo:
In questo momento l’Occidente subisce delle pressioni, per esempio da Putin, con la visione anti-occidentale o con i BRICS. Più possiamo fare per rafforzare le democrazie liberali occidentali, legandole più strettamente, più saremo sicuri che le regole liberali occidentali domineranno il ventunesimo secolo…
E ha concluso affermando, testualmente “questo è molto più importante che non discutere dei polli al cloro”.
Dunque non parliamo della qualità dei prodotti, dei problemi per i consumatori, cioè degli effetti economici reali sulla vita dei cittadini, perché qui è in ballo qualcosa di più grosso: la coesione dell’Occidente.
Io credo che sia ora di sfidare questo atteggiamento. I valori dell’Occidente non intendo metterli in discussione, ma sui benefici del TTIP ho qualche dubbio.
Abbiamo già visto passare tanti trattati e accordi senza un dibattito pubblico approfondito: in Europa basti pensare al Trattato di Lisbona o all’ESM, che i parlamenti hanno votato ma di cui il pubblico sapeva ben poco. L’atteggiamento delle istituzioni è stato che questi trattati erano troppo importanti per essere oggetto di discussione tra la gente.
Siamo disposti a tacere di fronte ad errori politici e a regali a certi interessi finanziari per quieto vivere? Dovremmo andare più in profondità su questo tema, non perché siamo contro i “valori occidentali”, ma perché succede spesso che nel nome di questi valori si avanzano in realtà gli interessi di un élite che ne ha già combinate tante.
L’informazione libera e critica rappresenta la forza del nostro sistema, non una minaccia allo stesso.
March 4, 2015
Economia, Interventi