28 febbraio 2011
È di una settimana fa circa la notizia che il Commissario europeo al mercato interno Michel Barnier è tornato alla carica contro ogni intervento statale – anche solo teorico – nell’economia italiana. Per conto dell’Unione Europea il commissario ha intimato all’Italia di modificare la disciplina sulla Golden Share, l’azione d’oro detenuta dallo Stato in gruppi strategici come Eni, Finmeccanica, Enel e Telecom Italia. Secondo Barnier i poteri spettanti al Governo italiano sono “eccessivi“, “vaghi e indeterminati“; conferirebbero alle autorità “ampi poteri discrezionali nel giudicare i rischi per gli interessi vitali dello Stato“, tutto in contrasto con le regole comunitarie sulla libera concorrenza.
Ora, che l’Unione Europea sia contro ogni intervento statale in economia non dovrebbe sorprendere nessuno, ma la rinnovata aggressività verso l’Italia in questo momento di crisi economica e scompiglio politico potrà forse aiutare ad aprire gli occhi a chi crede ancora che i principii del liberismo siano compatibili con il benessere economico delle nazioni. Ma torniamo un poco indietro per inquadrare meglio la situazione. La svolta verso la distruzione dell’assetto produttivo delle economie europee – spesso identificato come il “modello renano” negli anni Novanta – avvenne a ridosso di un periodo di grande sconvolgimento politico in Europa, iniziato con il crollo del muro di Berlino nel 1989.
A quel tempo la Germania era pronta a guidare un processo di sviluppo economico vero non solo per i nuovi Länder, ma anche per la Polonia, e implicitamente, per tutta l’Europa dell’Est. La capacità produttiva del cuore dell’Europa sarebbe state utilizzata in senso dirigistico, per sollevare i popoli oppressi per decenni dal sistema sovietico. Il movimento di Lyndon LaRouche si attivò subito con una campagna a favore di un’alleanza per lo sviluppo non solo dell’Europa stessa, ma anche dell’Asia attraverso il noto progetto del Ponte eurasiatico di sviluppo. Le nazioni del continente europeo avrebbero guidato una nuova epoca di cooperazione e di progresso, cambiando la direzione della storia attuale.
Gli interessi oligarchici non sono stati a guardare. Da Londra, sede storica della geopolitica imperiale, partì la campagna contro la Germania accusandola di diventare il Quarto Reich; l’uomo chiave in Germania per il finanziamento del progetto, Alfred Herrhausen, fu assassinato da un gruppo terroristico di dubbia esistenza; scoppiò la guerra nei Balcani, destabilizzando l’Europa centrale proprio come successe ai tempi della Prima Guerra Mondiale; e l’obiettivo di una maggiore cooperazione europea divenne un pretesto per imporre il trattato di Maastricht e la moneta unica, annullando la sovranità economica dei paesi membri. E non si pensi a qualche oscura teoria complottistica; fu Helmut Kohl stesso nelle sue memorie ad affermare con forza che Margaret Thatcher e Francois Mitterrand, con l’appoggio di George H.W. Bush, pretesero che la Germania si impegnasse ad entrare nell’Euro in cambio della via libera alla riunificazione tedesca.
Non a caso, anche l’Italia visse un momento di grande destabilizzazione, una trasformazione politica che inaugurò la stagione di “modernizzazione” e portò dritto alla crisi economica e finanziaria di oggi. Tangentopoli fu usata per fare fuori un’intera classe politica, con moltissime pecche senz’altro, ma a volte disposta ad opporsi ai diktat della finanza internazionale. Inoltre, il sistema delle partecipazioni statali rappresentava una struttura in grado di garantire il carattere industriale del Paese internamente e anche a livello internazionale, nonostante il declino già in atto fin dagli anni Settanta.
A partire dai governi tecnici guidati da Amato e Ciampi non solo ci fu un “rinnovamento” della classe politica, ma furono riscritte le regole dell’economia, dalle banche alle pensioni, dalle grandi imprese ai servizi locali. La stagione delle privatizzazioni portò alla svendita di numerose aziende statali, nel nome dell’efficienza e della necessità di abbattere il debito pubblico. Come abbiamo già documentato, questo processo in realtà non portò a dei risparmi per lo Stato; in molti casi rappresentò una perdita vera e propria, e soprattutto, aprì i settori strategici dell’economia a certi interessi privati nazionali e internazionali che hanno a cuore tutt’altro che il Bene Comune.
Così torniamo alla Golden Share. Le grandi aziende dello Stato sono ora private, ma in alcune di esse il Tesoro mantiene un potere di veto sulle decisioni strategiche. Dal punto di vista del sistema finanziario ed economico internazionale di oggi, tale potere è chiaramente un’anomalia; se si crede nel “libero mercato” lo Stato non deve avere alcun ruolo di indirizzo delle imprese, finirebbe solo per distorcere la libera concorrenza. Se invece guardiamo il mondo dal punto di vista strategico indicato in modo pur sommario sopra, la possibilità per l’Italia – e per ogni nazione che vuole sopravvivere in questo tempo di crisi – di difendersi dalla distruzione o dalla svendita dei settori fondamentali della propria economia, è essenziale. Tanto più nel momento in cui i dogmi economici degli ultimi decenni sono appena stati smentiti in modo spettacolare. L’efficienza del mercato ha portato ad una serie di bolle speculative la cui implosione ha inaugurato una crisi senza fine. Il mercato ha allocato i capitali in modo così perfetto che ora i cittadini subiscono l’austerità e la crisi per garantire lunga vita ai centri speculativi transnazionali.
Il fatto che il liberismo sia sancito nel Trattato di Lisbona non toglie il fallimento di quel sistema. Finché rimane qualche briciola di sovranità sarebbe il caso di tenersela; il mondo sta cambiando rapidamente, e gli Stati serviranno proprio per costruire un futuro per le popolazioni che ora non sono più disposte a patire la fame e la riduzione dei loro diritti nel nome della globalizzazione.
Andrew Spannaus
April 29, 2011
Economia