Con la firma dell’ultimo pacchetto di salvataggio per l’economia americana di 1,9 mila miliardi di dollari, Joe Biden conferma la scelta di perseguire la strada di un forte intervento pubblico per aiutare la classe media e bassa. La nuova legge include assegni diretti per tutti i cittadini che guadagnano meno di 75 mila dollari all’anno, e altri aiuti più specifici per varie categorie: si prevede un aumento del reddito delle famiglie più povere del 20 per cento, e perfino il dimezzamento del numero di bambini che vivono nella povertà grazie all’aumento degli assegni familiari. Più in generale, cresce il riconoscimento che “l’intero paradigma del ruolo del governo nella vita americana sta cambiando”, come ha scritto – favorevolmente – il commentatore conservatore David Brooks sul New York Times.
Questa virata verso programmi sociali più espansivi e di politica industriale da parte dello stato – che va ben oltre la Casa Bianca – provoca anche qualche preoccupazione in merito al possibile ritorno dell’inflazione e alla distorsione del mercato, ma per ora prevale la necessità di affrontare le profonde difficoltà e disuguaglianze degli ultimi decenni, che hanno portato da una parte al populismo politico, di destra e di sinistra, e dall’altra al rischio di perdere terreno rispetto al nuovo grande competitore strategico, la Cina. La convergenza tra gli interessi sociali e le necessità di sicurezza nazionale sta portando ad un punto di flessione netto rispetto al passato.
Il cambiamento cavalcato e promosso dall’amministrazione Biden, però, sembra essere limitato alla politica interna degli Stati Uniti, mentre verso l’estero manca un riesame dell’impronta neoliberale seguita da molto tempo. L’esempio ci viene dal programma dell’amministrazione per l’America centrale, che persegue due grandi obiettivi: quello di limitare il numero di migranti verso gli Stati Uniti, attraverso incentivi e anche misure politiche dirette, e il fine geopolitico più ampio di attutire e potenzialmente ridurre l’influenza cinese e russa nella regione.
Il “Plan Biden” prevede finanziamenti di circa 4 miliardi di dollari, e anche un aumento dell’investimento estero; in cambio i governi centramericani dovranno attuare le solite “riforme strutturali” come chieste dalle istituzioni finanziarie internazionali da decenni: ridurre le protezioni per i lavoratori, rafforzare gli accordi commerciali per garantire la competizione, e rimuovere le barriere agli investimenti. Si tratta della continuazione dei piani per l’America Latina attuati quando Biden era vicepresidente, che portarono a forti tagli ai servizi pubblici, con privatizzazioni e aumenti dei prezzi tali da generare ampie proteste popolari contro quello che si chiamava la “Alleanza per la prosperità”.
Dunque sembra esserci una difficoltà mentale a capire che i processi che hanno provocato la rivolta populista nei paesi avanzati hanno effetti simili altrove; tanto che la promozione di questo modello di sviluppo si è dimostrato negli anni uno dei fattori principali dietro all’esodo delle popolazioni verso il Nord, e anche dietro alla crescente apertura a paesi come la Cina che offrono condizioni migliori rispetto a quelle del Fondo Monetario Internazionale e dalle istituzioni di Washington.
Se all’interno degli Stati Uniti è ora evidente che occorre ricostruire la classe media e la base industriale, con investimenti importanti in settori d’avanguardia, i leader politici dovrebbero capire che lo stesso schema deve applicarsi ad altri paesi: correggere gli errori della globalizzazione finanziaria è l’unica strada per rafforzare gli alleati e le alleanze, se si vogliono affrontare i problemi sociali ed economici che impattano gli equilibri geopolitici del mondo attuale.
March 15, 2021
Economia, Notizie, Politica