(free) – di Andrew Spannaus –
I resoconti forniti dai media delle proteste sulle strade degli Stati Uniti si concentrano soprattutto, come era da aspettarsi, sugli aspetti violenti. E ci sono in effetti tanti esempi di violenza, soprattutto da parte di gruppi estremi di sinistra e di destra che riescono a dirottare le proteste che cominciano come pacifiche, e finiscono per provocare scontri che non solo danneggiano palazzi, automobili e anche vite umane, ma che esasperano la divisione tra la popolazione e le forze dell’ordine.
La prima cosa da ricordare in merito alle manifestazioni che vanno avanti da oltre una settimana è che scaturiscono dal rigetto dell’ingiustizia da parte di tante persone, non solo gli afroamericani. Infatti le decine di migliaia di cittadini che scendono in strada sono neri, bianchi, ispanici, e di tanti altri gruppi etnici. Protestano tutti insieme contro un sistema in cui i neri in modo particolare soffrono la brutalità da parte della polizia. Il numero di eventi, e la mobilitazione anche in piccole città come Casper, Wyoming e Missoula, Montana – cittadine che tra l’altro hanno una forte maggioranza di residenti bianchi – ricorda e in alcuni casi supera anche lo spirito delle proteste a favore dei diritti civili degli anni Sessanta, e non certamente una guerra tra le etnie.
Una seconda dinamica molto importante è la reazione della polizia. Vediamo esempi di due atteggiamenti, che portano in direzioni molto diverse. Da una parte le forze dell’ordine che reagiscono in modalità anti-sommossa, forti di un addestramento specifico e anche di materiale militare fornito dal Pentagono negli ultimi anni. In questi casi, quando la violenza comincia c’è subito l’escalation, con conseguenze prevedibili non solo per la sicurezza, ma anche per la percezione del ruolo della polizia da parte della popolazione.
Un’altra modalità, che si sta diffondendo negli ultimi giorni, è di un dialogo tra dimostranti e forze dell’ordine, e anche della loro compartecipazione alle manifestazioni. In questi casi diventa anche più facile limitare e isolare i gruppetti che cercano di scatenare la violenza, in quanto si evita di gettare le persone in mezzo ad una situazione di caos, con – ancora una volta – conseguenze prevedibili.
A livello più generale, va ricordato che le proteste attuali avvengono nel contesto di una crisi socioeconomica spaventosa. Il lockdown provocato dal coronavirus ha generato decine di milioni di nuovi disoccupati, e soprattutto ha accentuato la precarietà e le disuguaglianze presenti negli Stati Uniti. (Gli ultimi numeri sulla disoccupazione rappresentano un passo nella direzione giusta, ma oltre a sottostimare il vero numero dei senza lavoro, rappresentano comunque solo una frazione dei posti di lavoro da recuperare.)
Per chi deve lavorare da casa davanti al computer il problema diventa come gestire i figli; per chi ha perso il lavoro, o ha dovuto continuare a lavorare in situazioni pericolose, la questione è ben più seria. E i dati indicano che sono proprio le minoranze a soffrire di più gli effetti del virus in termini sia di salute fisica che di sopravvivenza economica. Per questo anche alcuni commentatori conservatori, seppur comprensibilmente stigmatizzando le frange violente, riconoscono che almeno in parte è in atto una dinamica di classe, cioè una reazione al senso di ingiustizia di un sistema che tiene schiacciate intere fasce della popolazione.
Si parla molto del tentativo del presidente Trump di seguire una linea politica di “law and order” come risposta alla crisi, per fare bella figura presso gli elettori spaventati dal caos sulle strade. Il riferimento storico è alla campagna di Richard Nixon del 1968, quando da sfidante repubblicano Nixon riuscì a sfruttare la paura della classe media rispetto ai disturbi nelle città. Per ora non sembra che questa strategia stia funzionando per Trump: i primi sondaggi disponibili mostrano che una maggioranza degli americani ha un giudizio negativo della gestione della crisi da parte del presidente. Anche tra la base repubblicana si vede un distacco di circa 20 punti percentuali tra l’approvazione delle azioni di Trump in merito al coronavirus, e quelle in merito alle proteste scaturite dalla morte di George Floyd. Inoltre, il tema su cui il presidente ha puntato di più – l’utilizzo dell’esercito per le strade – sta provocando una forte reazione tra gli stessi vertici militari, dal Segretario alla Difesa Mark Esper all’ex Segretario Mattis, dall’ex generale e Segretario di Stato Colin Powell all’ex Capo di Stato Maggiore Mike Mullen. Si tratta di persone che finora non avevano criticato Trump pubblicamente, ma che considerano il suo approccio alla crisi attuale molto pericoloso.
Dal punto di vista del presidente, queste voci fanno certamente male, ma Trump conterà sull’aspetto che ha sempre sorretto la sua presidenza: che sempre meno il popolo è influenzato dalle voci istituzionali presentate sui grandi media dell’establishment. Il presidente sa di poter parlare direttamente agli elettori, e spera anche questa volta di aver indovinato i sentimenti di almeno una significativa minoranza della popolazione. Questa è la sua strada, perché è evidente che la sua più grande debolezza è di non poter parlare a tutti in momenti come questo.
– Newsletter Transatlantico N. 18-2020
June 19, 2020
Politica