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L’espansione economica cinese e il futuro di Hong Kong

July 14, 2020

Politica, Strategia

(free) – di Paolo Balmas –

Sia la Gran Bretagna che l’Australia si sono offerte di aiutare i cittadini di Hong Kong nel caso volessero allontanarsi dalla loro terra in seguito alla promulgazione della legge sulla sicurezza voluta da Pechino per la Regione a statuto speciale, che nei prossimi venticinque anni deve completare il processo di totale assorbimento nel sistema politico economico della Cina. Hong Kong è stato un protettorato e parte integrante del sistema coloniale britannico per novantanove anni, secondo un trattato ineguale che è cessato alla fine del 1997, quando l’ultimo governatore inglese ha lasciato il suo posto rientrando per sempre a Londra. Prima di quella data, la Gran Bretagna insieme alla Cina hanno concluso un patto per rendere più morbida possibile la riannessione della colonia. L’attuale sistema legislativo e politico di Hong Kong è frutto di quel patto.

I movimenti per la democrazia di Hong Kong sono nati proprio per ottenere una legge più democratica nell’immediato, perchè nel passaggio da colonia a parte integrante della Repubblica popolare è previsto un sistema semi-democratico. La legge di Hong Kong attuale non permette a tutti di votare e divide la popolazione in rigide categorie socio-economiche che eleggono i propri rappresentanti e questi, in un secondo momento, decidono chi governa la Regione. Man mano che Pechino estende il suo controllo su Hong Kong, i movimenti democratici estendono le proteste contro il sistema della Repubblica popolare, ovvero del governo centrale. Che Londra ne sia stata cosciente o meno, la legge provvisoria di Hong Kong ha avuto la funzione di un cavallo di Troia, abbandonato in dono sulla riva del mare dopo la ritirata dei conquistatori. La legge ha provocato un generale malcontento, escludendo alcune fasce della popolazione dalla politica della città. Dalla protesta contro i limiti della legge attuale, si è passati facilmente, forse naturalmente, alla protesta contro il sistema politico della Repubblica popolare, il quale si basa ancora su una forte presenza e stretto controllo dello stato sull’economia e sulla società.

Ormai è noto che i movimenti democratici di Hong Kong hanno ricevuto importante sostegno da ong straniere, le quali hanno aiutato parti della popolazione locale, specialmente gli studenti, a organizzarsi, sia per la logistica che per la diffusione di notizie e coordinamento attraverso i social media. La stessa sofisticata idea dell’ombrello e dell’originale colore giallo, che ha avuto uno straordinario successo, è stata portata a simbolo universale attraverso una campagna mediatica ben organizzata, malgrado fuori della Cina non sia stata del tutto compresa. L’ombrello, nell’antichità cinese, era un oggetto che solo la classe delle famiglie nobili intorno alla cerchia dell’imperatore poteva utilizzare e ogni famiglia aveva il suo colore. Il giallo era riservato alla famiglia imperiale. Una simbologia che ha aiutato la protesta a spostare il suo oggetto dalla legge semi-democratica di Hong Kong al sistema politico economico della Repubblica popolare.

La legge per la sicurezza voluta da Pechino per la regione di Hong Kong, non stupisce, serve anche a instaurare un nuovo controllo sulle attività delle ong. Ciò che si teme maggiormente, si è detto in questi ultimi giorni, è un esteso controllo sulla rete Internet, che è noto in Cina avere limitazioni per tutti i grandi social americani. Non si tratta di un limite assoluto, ma è chiaramente eccessivo se comparato ai nostri standard di relativa libertà digitale. In generale, tuttavia, in Cina la popolazione non si fida di alcuni marchi e fa naturalmente riferimento ai social cinesi che offrono fra l’altro sistemi di pagamento e prenotazione che non hanno eguali nel resto del mondo. Sistemi che, si dice, avrebbero anche aiutato il contenimento del coronavirus. È stato anche detto che siamo di fronte alla fine del motto ‘una nazione, due sistemi’, che indica appunto la coesistenza di due organizzazioni territoriali, sociali ed economiche sotto la guida di Pechino.

Tuttavia, i due sistemi sono incentrati principalmente sulla coesistenza di due monete differenti. La caratteristica di tale rapporto è esaltata da una straordinaria architettura fiscale che ha permesso e permette ancora a Hong Kong di esercitare un ruolo chiave nelle relazioni commerciali della Cina con l’estero. Un meccanismo che permette di alterare la vera bilancia commerciale di Pechino e dei suoi maggiori partner commerciali, primi fra tutti gli Usa, attraverso il fenomeno del re-export. Meccanismo che permette di risparmiare miliardi l’anno alle grandi corporazioni occidentali (ma non solo) che producono o assemblano i loro prodotti in Cina. Se la legge sulla sicurezza altera questo meccanismo, allora la legge sulla sicurezza è un problema per tutti, Pechino inclusa. Ma la legge sulla sicurezza viene per il momento presentata come una minaccia alle libertà individuali e al futuro di Hong Kong come centro finanziario.

La legge sulla sicurezza era attesa poiché, per Hong Kong, è un passaggio obbligatorio della transizione da colonia a parte integrante della Cina. La decisione di Pechino di promulgarla in questo momento storico (a venticinque anni dalla scadenza del periodo di transizione), è interpretata come una mossa d’anticipo e un errore strategico. Mentre Tokyo ha sottolineato la delicatezza di alterare gli equilibri raggiunti con Hong Kong, Londra e Canberra hanno preso posizione (hanno anche moderato i toni dopo poche ore) contro Pechino. Se da un lato Pechino vuole realmente accelerare un processo, dall’altro la scelta avviene in piena trattativa commerciale con Washington. In altre parole, in Cina è stato avvertito il bisogno di mantenere una posizione forte e decisa rispetto alla sua agenda politica ed esercitare una pressione su precisi interessi, tra l’altro, in concomitanza con una vasta esercitazione militare Usa nel Mar cinese meridionale che ha visto il dispiegamento di tre portaerei e i loro relativi gruppi di attacco – due che hanno partecipato alle esercitazioni e una stanziata nell’area. È la seconda volta che sotto l’amministrazione Trump gli Usa portano una tale potenza di fuoco nei mari cinesi. Nel 2017 l’obiettivo era di esercitare pressioni sulla Corea del Nord, oggi sulla Cina.

Mentre tutto sembra volto a ottenere reazioni per risolvere questioni più o meno immediate, sullo sfondo si svolge un gioco più lento. Nel lungo termine, infatti, la Cina ha obiettivi ben più ampi, fra i quali privilegiare i propri centri finanziari, specialmente Shanghai e Shenzhen. Mentre la riforma del sistema bancario cinese è conclusa e la Cina si prepara a una maggiore apertura economica in favore di investitori esterni, i prossimi anni saranno dedicati allo sviluppo dei mercati del capitale (equity e bond market), che sono per ragioni storiche ancora arretrati rispetto agli Usa e al Giappone, e soprattutto alle potenzialità cinesi. La cresita della finanza cinese non potrà che risultare in un declino di Hong Kong, che oggi costituisce un ponte per accedere ai flussi finanziari interni della Cina.

Sembra di essere al preludio di un cataclisma storico per una città, piccola ma tanto importante. Una condizione, in qualche modo, simile a quella di Venezia, con il suo lento e inesorabile declino. Hong Kong, avrebbe una storia più breve, ma nei nostri tempi tutto è accelerato. Il cambio delle rotte dei capitali porterà a un cambaimento della funzione dell’ex colonia britannica. Ma Hong Kong non vive solo di questo. Certamente, se la città perderà anche la sua funzione di base per il re-export, in seguito ai cambiamenti strutturali dell’economia mondiale che sono ora in corso, allora sarà davvero perduta.

– Newsletter Transatlantico N. 22-2020

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