(free)- di Andrew Spannaus –
Ci sono interpretazioni divergenti sul significato della decisione americana di uccidere il generale iraniano Qassem Suleimani. I sostenitori di Donald Trump sottolineano l’apparente efficacia dell’azione, e il fatto che finora il presidente è rimasto fedele ad una visione di “pace attraverso la forza”, cioè l’uso della forza in modo dimostrativo che non porta alla guerra piena, ma piuttosto rappresenta un posizionamento da sfruttare per negoziare condizioni migliori per gli Stati Uniti.
I critici invece, sottolineano il grande rischio corso nel compiere ciò che di fatto è stato un atto di guerra, che potrebbe portare alla morte di americani nel futuro e che dimostrerebbe l’assenza di un chiaro piano a lungo termine da parte della Casa Bianca.
Per evitare un’analisi superficiale o di parte della situazione, bisogna innanzitutto riconoscere che entrambi hanno in parte ragione. Ad oggi l’operazione Suleimani è stato un indubbio successo tattico. Di fronte ad una serie di provocazioni e attacchi crescenti nell’ultimo periodo – da entrambe le parti – Trump ha deciso di battere un colpo fortissimo, che ha sorpreso tutti, e che di fatto ha messo l’Iran in un angolo: a questo punto Teheran sa che se dovesse uccidere altri cittadini americani gli Stati Uniti sono pronti ad attaccare in modo pesante, sproporzionato, e forse anche senza rispettare le normali regole della diplomazia e della guerra. La minaccia di Trump di prendere a bersaglio i siti culturali iraniani, seppur ritrattata poco dopo, non è stato un caso.
La dura realtà è che l’Iran non può permettersi un conflitto di questo tipo. Se la modalità dei neoconservatori alla Dick Cheney era di cercare di “esportare la democrazia” con le truppe e le basi, è chiaro che Trump si accontenta dei missili, che mettono Teheran in uno svantaggio enorme; il livello di danni che può infliggere all’America direttamente è limitato, mentre un bombardamento massiccio dell’Iran sarebbe devastante. Non a caso i funzionari iraniani hanno minacciato di attaccare gli alleati americani, Israele e l’Arabia Saudita, se dovesse esserci un altro round di ostilità.
Nell’immediato, il risultato è che l’Iran si è limitata ad una risposta di fatto simbolica all’uccisione di Suleimani, con una serie di missili contro due basi americane in Iraq, ma dopo aver avvertito gli iracheni in anticipo (che hanno quindi avvertito gli americani), apparentemente senza aver causato vittime.
Questo non significa, certamente, che l’Iran non possa prendere misure asimmetriche nel prossimo futuro. Anzi, è davvero poco probabile che la Repubblica islamica deciderà di aver perso questa sfida, e che ora dovrà adeguarsi alle minacce della Casa Bianca. Potrebbe cercare di rispondere in modo indiretto alla sconfitta tattica, testando la soglia di sopportazione degli Stati Uniti. Trump ha tracciato una linea rossa – la morte dei cittadini americani – e con questo ha voluto mettere fine alle provocazioni iraniane. Ma l’Iran cercherà di utilizzare questa linea rossa per mettere il presidente americano alla prova, sfruttando le contraddizioni di una politica estera a metà strada tra la volontà di ritiro del presidente, e quella di contrastare ogni mossa di Teheran nella regione, posizione che domina ancora tra molti suoi consiglieri.
Qui arriviamo alla trappola. Trump pone delle condizioni all’Iran per ridurre la conflittualità con gli Stati Uniti: limitare lo sviluppo dei missili balistici, ridurre il suo sostegno per gruppi militanti nel resto del Medio Oriente, e soprattutto non tentare di sviluppare le armi nucleari. Con queste richieste, Trump si espone a vari rischi. Le prime due sono viste come irricevibili da parte di Teheran, in quanto dovrebbe privarsi di strumenti essenziali di difesa e risposta mentre i suoi nemici puntano al cambiamento di regime.
Sul fronte nucleare, invece, uno degli effetti a medio termine di questo scontro sarà proprio di convincere gli iraniani che hanno bisogno delle armi atomiche, indebolendo chi dentro il paese sosteneva l’importanza di scendere a patti con gli Stati Uniti. Dunque, se Trump dovesse essere rieletto, si troverà continuamente incoraggiato ad agire per esigere il rispetto delle sue condizioni. Questo è quanto è già successo con il caso Soleimani: per mesi il Segretario di Stato Mike Pompeo – che da molti anni caldeggia azioni militari contro l’Iran – ha fatto pressioni su Trump per passare all’attacco, finché non ha ottenuto il risultato. Non è difficile immaginare una situazione in cui l’intelligence viene manipolata per facilitare un ulteriore intervento americano; nonostante il fiasco delle “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein, le pressioni per fornire informazioni che piacciono ai politici sono continuate negli anni, nel caso dell’Iran prima dell’accordo, e anche in questi giorni, visto che per ora ci sono ben poche prove degli attacchi “imminenti” citati dalla Casa Bianca come giustificazione per l’eliminazione di Soleimani.
Inoltre, occorre ricordare come siamo arrivati alla situazione odierna. La “crisi” con l’Iran è stata in non piccola parte creata da Trump stesso, ritirandosi dall’accordo nucleare. Dal punto di vista di chi vede la Repubblica islamica come il nemico da abbattere il ritiro era giustificato e necessario, ma è pacifico che il regime di ispezioni e limitazioni fissato nell’intesa del 2015 precludeva lo sviluppo della bomba nucleare per numerosi anni. E’ evidente che lo scopo di Trump, e di chi lo aizza contro Teheran, va ben oltre la questione del programma nucleare.
Da Pompeo al Segretario della Difesa Mark Esper, al Senatore Lindsey Graham e altri consiglieri, Trump si trova in mezzo a persone che di fatto continuano a vedere il Medio Oriente con gli occhi dei neoconservatori. Non significa che il presidente faccia sempre ciò che vogliono; anzi, continua a credere nella necessità di ritirare le truppe ed evitare di combattere le guerre infinite, seppur senza mostrare segni di debolezza. Ma ogni volta che fa un passo deciso in questa direzione trova delle forti resistenze istituzionali. Se vuole dimostrare di fare sul serio, ora ha un’occasione d’oro: cominciare a portare a casa le truppe americane dall’Iraq, come chiesto dallo stesso parlamento iracheno. Come si è già visto in questi giorni, non sarà facile, il che dimostra che seppur Trump voglia seguire la propria strada, ci sono molti a Washington che lo combatteranno ad ogni passo.
Infine, una considerazione sulle implicazioni dello scontro con l’Iran sulla politica interna Usa. La popolazione americana non vuole un’altra guerra in Medio Oriente; questo Trump lo sa, e infatti una parte della sua base conservatrice ha reagito con molto sospetto alle azioni militari di questi giorni, temendo che il presidente si riveli incapace di mantenere le sue promesse elettorali. Tuttavia il bombardamento a distanza, l’uccisione di un personaggio definito come terrorista che ha ucciso tanti americani – se finisce qui – gli permette di presentarsi come un leader deciso che evita di farsi impantanare dalle mezze misure. Se non ci sarà un’escalation, prevedibilmente non ci saranno danni politici significativi.
Da parte loro, i democratici fanno fatica a criticare in modo incisivo il presidente, in quanto le loro dichiarazioni sono ambigue: quasi tutti dicono che in fondo non è stato sbagliato prendere a bersaglio Soleimani, mentre stigmatizzano il metodo seguito, per esempio l’aver agito senza consultare il Congresso. E’ un tema importante: come le amministrazioni precedenti, anche questa di fatto ignora la competenza del Congresso sugli atti di guerra; ma questa critica ha un effetto limitato nel dibattito pubblico. Trump è sicuramente vulnerabile quando prende rischi come quello dell’azione militare contro l’Iran, ma per contrastarlo i democratici dovranno scegliere una linea d’attacco più chiara, criticando senza tentennamenti la politica interventista degli ultimi decenni.
– Newsletter Transatlantico N. 1-2020
January 9, 2020
Politica, Strategia