– di Andrew Spannaus – (free)
Lo scontro pubblico tra il presidente statunitense Donald Trump e il Direttore Generale dell’Organizzazione Mondiale della Salute Tedros Adhanom Ghebreyesus ruota intorno ad un punto centrale nella politica mondiale in questo momento – il crescente peso della Cina – ma il modo in cui viene presentato dalla stampa spesso rischia di relegare in secondo piano alcuni aspetti importanti. Trump non si fida degli organismi sovrannazionali, e quindi non perde occasione di criticare chi si presenta come super partes ma poi viene influenzato da paesi specifici, soprattutto quando il paese in questione è la Cina; tuttavia c’è da ragionare anche sul ruolo degli esperti tecnici in questo periodo, rispetto alle responsabilità della politica.
Ormai la grande maggioranza nelle istituzioni americane vede Pechino come il principale rivale degli Stati Uniti, e la crisi legata al coronavirus non fa che sottolineare i problemi creati dall’indebolimento della manifattura occidentale negli ultimi decenni, e anche le differenze tra i due sistemi politici. C’è infatti un forte dibattito in corso sulle responsabilità cinesi per questa crisi, dovendosi confrontare da una parte con la presunta mancanza di trasparenza e affidabilità di Pechino, e dall’altra con l’apparente efficacia di un sistema centralizzato e meno attento ai diritti individuali dei cittadini.
Ma bisogna evitare di inquadrare lo scontro nell’ottica della chiusura di Trump contro la cooperazione internazionale rappresentata dall’Oms. Altrimenti si rischia di non riconoscere i gravi errori commessi dall’Oms negli ultimi mesi, che sollevano molte domande su quanto bisogna fidarsi degli esperti in tema di salute e malattie, e su come vanno prese le decisioni politiche in un periodo difficile come quello attuale.
L’Oms era ben cosciente della possibilità di una nuova pandemia, avendo chiesto ai paesi membri di stilare un Piano Pandemico già dal 2005. Ciò che rende perplessi, però, è che dall’inizio di quest’anno l’Oms è sempre sembrata timida nell’affrontare la crisi attuale. Cioè, mentre si possono invocare delle attenuanti per molti decisori pubblici, anche in Italia, in quanto i messaggi che provenivano dagli “esperti” erano in effetti contradditori, risulta difficile perdonare gli esperti stessi e l’essere sempre in ritardo rispetto alla realtà, contribuendo appunto ad una situazione in cui la politica ha agito in modo sparso e poco incisivo.
La caratteristica comune alle dichiarazioni dell’Oms sembra essere di aver certificato i problemi solo una volta che erano evidenti, piuttosto che averli anticipati. Per esempio, il 14 gennaio l’Oms ha dichiarato che non c’erano prove di “trasmissione tra umani” del nuovo coronavirus, citando le “indagini preliminari da parte delle autorità cinesi”. (Qui in effetti si può scorgere un’influenza sproporzionata della Cina, in quanto alcuni moniti erano venuti da Taiwan, esclusa dall’Oms grazie all’influenza di Pechino.)
Pur definendo le misure cinesi molto efficaci, l’Oms ha poi dichiarato un’emergenza di sanità pubblica il 31 gennaio. Negli stessi giorni, però, Tedros aveva detto che non occorreva limitare i viaggi da e verso la Cina, affermando che bisognava evitare “restrizioni non necessarie del traffico internazionale”.
La pandemia, invece, fu dichiarata solo l’11 marzo, quando ormai il virus era presente in numerosi paesi: una presa d’atto di una situazione già evidente, piuttosto che un’azione utile per prevenire il peggioramento.
Infine c’è la questione dei tamponi. Per numerose settimane l’Oms è rimasta sulla linea che occorreva fare i test solo ai sintomatici. In Italia questo approccio ha avuto effetti importanti, permettendo alle autorità di difendere la decisione di limitare i tamponi. Per esempio, il 27 febbraio il Prof. Walter Ricciardi, esperto molto in vista e consulente dell’Oms, ha criticato la strategia della Regione Veneto di fare tanti tamponi, citando le linee guida dell’Oms.
Successivamente, in una conferenza stampa del 16 marzo, Tedros ha mandato “un messaggio semplice a tutti i paesi: test, test, test. Fare il test per ogni caso sospetto”. Insomma, una virata di 180 gradi, avvenuta però più di 3 settimane dopo l’esplosione della crisi in Italia.
Va detto che nel caso italiano – e non solo – la vera motivazione per limitare i tamponi sembra riguardare più il costo e la mancanza di risorse, come abbiamo scritto la scorsa settimana. Ma poter giustificare questa politica citando la posizione del massimo organo tecnico mondiale ha un effetto significativo, ed è facile pensare che abbia contribuito all’ulteriore diffusione del virus.
Non è stato così difficile capire da subito che alcune posizioni erano strumentali o sbagliate. Nel numero di Transatlantico del 25 febbraio abbiamo avvisato contro personaggi che sminuivano il pericolo come il direttore di microbiologia clinica e virologia all’ospedale Sacco di Milano Maria Rita Gismondo, e nelle settimane successive abbiamo citato i maggiori successi dei paesi dove si sono fatti più tamponi, come la Corea del Sud (e ora la Germania, e anche la Regione Veneto).
Non ci è voluto molto per capire che “testare e tracciare” è la strategia migliore, ma rimanendo alle parole di molti tecnici, si è arrivati tardi a questa conclusione. Si pone dunque il problema: dobbiamo aspettare il parere degli esperti? Oppure i politici devono muoversi anche in anticipo di fronte al pericolo?
Certamente la scienza è fondamentale, e non si può pensare di ignorare le raccomandazioni di chi conosce a fondo la materia. Ma i ritardi e la timidezza dell’Oms negli ultimi mesi dimostra che a volte la politica deve fare le proprie valutazioni, anche quando le informazioni disponibili in un dato momento sono incomplete. Altrimenti si rischia di arrivare dopo lo sparo, e di raccogliere i cocci solo quando i “fatti” sono stabiliti al 100%.
– Newsletter Transatlantico N. 11-2020
April 20, 2020
Notizie, Politica