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Alexander_Hamilton

Il New York Times scopre Alexander Hamilton

February 14, 2018

Economia, Storia

(free) – di Andrew Spannaus –

Negli Stati Uniti, sono ormai decenni che nel mondo politico ed economico non si parla più della vera storia economica americana. Piuttosto che riconoscere il ruolo fondamentale del protezionismo e dell’intervento statale per favorire lo sviluppo di imprese private, la linea dominante è da tempo il ‘Washington Consensus’, cioè che l’economia americana deve basarsi solamente sul ‘libero mercato’ e sulla riduzione del ruolo pubblico.

Grazie a questa narrazione dominante, rievocare misure come i dazi o una banca pubblica provoca preoccupazioni in quasi tutti gli schieramenti politici: parlare di dirigismo e intervento statale significa aprirsi alla critica di essere comunista, a favore dell’economia pianificata di stile sovietico, e chiaramente contrario alla tradizione americana della libertà economica.

La realtà, come sa chi ha studiato la storia degli Stati Uniti – o anche dell’Europa – è che le politiche del libero mercato furono sviluppate dall’impero britannico come modo di garantire il proprio dominio rispetto ad aree meno sviluppate. La potenza coloniale aveva tutto l’interesse ad evitare che la nuova nazione americana, per esempio, non proteggesse le proprie industrie. Si trattava di garantire il dominio del mercato, cosa che l’impero ha spesso fatto anche con i cannoni.

L’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca ha imposto una nuova discussione del protezionismo, che per lo più, però, rimane caratterizzata da toni truci e con lo spauracchio dell’autarchia e della guerra. Nella disperazione generale delle élite occidentali, si è persino accettata l’idea che ormai il difensore della libertà (di mercato) sarebbe la Cina, contro il reazionario presidente degli Stati Uniti.

Le analisi che contraddicono questa visione semplicistica ci sono, ma rimangono confinate a sedi di discussione limitate; nei grandi media, nelle riviste più seguite, l’ortodossia riesce ancora a dominare.

In questo contesto però è stato pubblicato un lungo articolo sul New York Times la settimana scorsa, intitolato “L’ascesa della Cina e la caduta del mito del ‘libero scambio’”. Il pezzo, dello scrittore di origini indiane Pankaj Mishra, è notevole appunto perché dice qualcosa che dovrebbe essere ovvio, ma che viene regolarmente ignorato nella discussione della crescita economica in tutto il mondo: “Nessuno tra quelli che predicano il “libero scambio” lo pratica davvero”.

Mishra parte dall’intervento di Trump a Davos, facendo un po’ di acrobazie nel tentativo di sminuire il ruolo del presidente americano, ma arriva presto a parlare di quanto la Cina ha fatto in termini di pianificazione statale, sussidi industriali, e mancanza di rispetto per il mercato libero. E poi prosegue sottolineando una verità storica fondamentale:

“La storia economica rivela che le grandi potenze sono quasi sempre diventate grandi a causa di uno stato attivista. A prescindere dalle presunte proprietà mistiche della mano invisibile, spesso il sistema degli interessi dipende dalla mano visibile e anche pesante dello stato… Il padre filosofico del protezionismo economico è stato Alexander Hamilton, fondatore del sistema finanziario americano, tra i cui alunni figurano i tedeschi, i giapponesi, e indirettamente, anche i cinesi”.

L’autore continua spiegando l’essenza del “Rapporto sulle Manifatture” di Hamilton, in cui il primo Segretario al Tesoro parlò di “industrie nascenti” che richiedono protezione per poter competere sui mercati piuttosto che rimanere sotto il tallone delle potenze coloniali: “E’ stata la formula di Hamilton, piuttosto che il libero scambio, che permise agli Stati Uniti di crescere di più delle altre economie nel 19mo secolo e fino agli anni Venti del 20mo. E tale formula fu abbracciata da altre nazioni più tardi”. In questo contesto Mishra cita l’economista tedesco Friedrich List, a favore del libero mercato, ma solo dopo aver garantito la crescita dell’industria.

Infine l’articolo sul NYT mostra che le potenze economiche asiatiche, prima il Giappone ma poi la Corea e infine anche la Cina, hanno applicato le stesse lezioni, seguendo le ricette di Hamilton e List piuttosto che di Adam Smith; con l’osservazione ironica che uno dei fattori che ha più aiutato i cinesi a crescere è stato proprio l’insistenza dell’Occidente sul mercato libero, dando a loro uno sbocco praticamente illimitato per le proprie esportazioni.

Sono anni che auspichiamo una discussione più seria del cambiamento economico necessario per affrontare i problemi della globalizzazione finanziaria e della deindustrializzazione del mondo occidentale. La rivolta degli elettori esplosa dal 2016 in poi ha offerto una grande occasione per modificare i termini del dibattito, ma purtroppo il trattamento del “protezionismo” è rimasto piuttosto superficiale. I media mainstream hanno una grande colpa in questa situazione; speriamo invece che l’articolo di Mishra contribuisca ad una discussione più seria sulla storia economica e le misure che servono oggi.

– Newsletter Transatlantico N. 5-2018

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