Intervento di Andrew Spannaus al convegno “La mezzaluna del fondamentalismo islamico dal Caucaso alla Libia”
Quando abbiamo discusso l’organizzazione di questo convegno ho pensato subito al termine più geopolitico per quello che abbiamo indicato nel titolo come la “Mezzaluna Islamica”, cioè l’Arco della Crisi.
L’Arco della Crisi è un termine utilizzato da due personaggi molto noti: quello più in vista a livello pubblico è stato Zbigniew Brzezinski, Consigliere per la Sicurezza Nazionale durante la presidenza di Jimmy Carter (1977-1981). L’altro – noto sicuramente agli studiosi – è Bernard Lewis, storico britannico prestato alla Princeton University negli anni Settanta.
Lewis consigliò l’Amministrazione Carter ad incoraggiare la creazione di una serie di stati fondamentalisti lungo il confine meridionale dell’Unione Sovietica, per destabilizzare il nemico strategico dell’Occidente.
Brzezinski parlò pubblicamente dell’Arco della Crisi, a cominciare dal 1978, identificando una zona che va dal Nord Africa, attraverso il Medio Oriente, fino all’Asia Centrale e ai confini dell’India, di potenziale caos politico “che potrebbe essere riempito da elementi ostili ai nostri valori e solidali con i nostri nemici”.
E poi mise in atto un piano per intervenire in questa regione come suggerito da Lewis; a partire dal sostegno ai Mujaheddin in Afghanistan, con la collaborazione del Pakistan e dell’Arabia Saudita, tra gli altri.
Il piano ha in parte funzionato, ovviamente, se si considerano le difficoltà sovietiche in Afghanistan, e successivamente Brzezinski difese questo risultato. Nel 1998 per esempio disse: “Cos’è più importante per la storia mondiale? I talebani o il crollo dell’Unione Sovietica? Qualche musulmano agitato o la liberazione dell’Europa Centrale e la fine della Guerra Fredda?”
Tuttavia ci sono stati degli effetti collaterali piuttosto significativi dagli anni Novanta in poi. Non solo in termini di terroristi “avanzati” dai conflitti precedenti, ma anche un modus operandi, un metodo di lavoro basato sulla manipolazione dei movimenti fondamentalisti per motivi strategici.
L’Occidente e i suoi alleati hanno continuato con questa strategia per molto tempo, fino ai nostri giorni, quando è diventato abbastanza evidente come il fenomeno si ritorce contro di noi.
Non è certamente la prima volta nella storia che si è applicato questo metodo. Il Medio Oriente, i Balcani, l’Asia Centrale furono aree delicate e contese già nell’800. Ebbero un ruolo importante nella preparazione della Prima Guerra Mondiale.
Ma proprio per questo quando oggi parliamo di questi processi dobbiamo essere coscienti dei fattori storici lontani e vicini; di come siamo arrivati alla situazione attuale.
Gli altri paesi lo sanno. Loro hanno avuto un certo ruolo dall’altra parte ovviamente, che va considerato, ma non possiamo ignorare il contesto degli equilibri geopolitici globali, e di come influenzano gli eventi nella zona del Medio Oriente allargato.
Quello che oggi trovo più interessante, ed importante, sono i segni di un cambiamento – seppure parziale – degli elementi dello scontro degli ultimi decenni.
Dopo la guerra in Libia nel 2011 ci fu uno spostamento delle attenzioni sulla Siria, come prossimo bersaglio nella catena di regimi che dovevano cadere. Furono dati finanziamenti e armi ad alcuni gruppi islamici, incoraggiandoli ad andare in Siria a compiere il prossimo lavoro.
Ad un certo punto i governi occidentali cominciarono a dire “Assad se ne deve andare”. Sembrava scontato che Assad dovesse essere rimosso.
Si sono create delle aspettative, ma la realtà è rimasta indietro rispetto alle dichiarazioni pubbliche. Obama non era proprio convinto. Si sono sì finanziati i gruppi di ribelli, in operazioni coordinate attraverso i servizi. Si è dato campo libero agli alleati come i sauditi. Ma non fino in fondo.
I fautori del regime change chiedevano sempre di più.
Nel settembre 2013, dopo l’utilizzo delle armi chimiche a Ghouta – ufficialmente tutti erano convinti che fosse opera di Assad, ma l’intelligence nutriva dei dubbi – ci furono molte pressioni per bombardare la Siria. Io ho sempre considerato il rifiuto di Obama di lanciare questa nuova guerra come un punto di svolta.
Ora, poche settimane fa nell’articolo/intervista di Jeffrey Goldberg su The Atlantic anche Obama lo ha definito come tale. Ha rivendicato la decisione di non intervenire, dicendo che fu in quel momento che rifiutò gli schemi politici che normalmente vengono seguiti a Washington.
Tanti a destra (e non solo) temevano che Obama fosse un pacifista, un debole, che volesse ridefinire il ruolo dell’America nel mondo. Tuttavia per i primi anni del suo mandato ha dimostrato il contrario. Ha acconsentito alle richieste per aumentare le truppe in Afghanistan, ha esteso la Guerra al Terrorismo ad altre nazioni, ha ampliato di molto le operazioni con i droni.
A quasi 5 anni dall’elezione invece ha cominciato a cambiare traiettoria. Ha insistito sull’accordo con l’Iran. E poi ha fatto retromarcia sulla Siria, lasciandosi salvare da Putin.
Essendo un fautore di questo approccio, cioè di una collaborazione con la Russia piuttosto che dell’accerchiamento strategico e lo scontro, ho sempre cercato di cogliere gli aspetti positivi negli ultimi due anni e mezzo. Non è sempre stato facile, perché non è chiaro dove gli Usa vogliono andare.
Soprattutto perché ci sono più fazioni: i vertici del Pentagono e dell’Intelligence, i Senatori influenti come John McCain e alcuni degli stessi consiglieri di Obama alla Casa Bianca, tutti hanno visioni loro, che non necessariamente coincidono con quella del presidente.
Io sono convinto che Obama ora sa la direzione dove vuole andare, ma che ci va con molta difficoltà.
Fa dei compromessi che danno luogo a delle forti contraddizioni. Per fare solo un esempio, per rispondere alle preoccupazioni dell’Arabia Saudita sull’Iran, gli Usa sostengono la guerra nello Yemen, nonostante i risultati disastrosi in termini sia umanitari sia di aiuto indiretto ad Al-Qaeda.
Nei fatti però, rimane che c’è un processo diplomatico in corso in merito alla Siria, in cui i principali protagonisti sono Sergei Lavrov e John Kerry, con lo scopo di definire il perimetro di un accordo politico per creare una situazione più stabile.
Le difficoltà sono enormi. Le violenze, le battaglie continuano. I gruppi coinvolti hanno obiettivi diversi e sarà molto difficile metterli insieme.
Ciò nonostante per me il punto fondamentale è che esiste una volontà condivisa di raggiungere un accordo. E di tracciare un qualche tipo di linea tra quelli che consideriamo “terroristi” e quelli che vogliono partecipare ad un processo politico.
Non parlo di soluzione, che è forse un termine troppo ambizioso in questo momento. Soprattutto per le esigenze della popolazione siriana. Purtroppo bisogna riconoscere che il ripristino della vita civile in Siria, e la “sconfitta” del terrorismo richiederanno molto tempo, e molto di più che non una guerra guerreggiata o l’uccisione dei leader dell’ISIS e di altri gruppi.
Piuttosto il processo diplomatico in atto intorno alla Siria è importante per via del cambiamento che rappresenta nelle relazioni globali.
In questo senso presento una posizione realista, quasi fino al punto del cinismo, se consideriamo gli effetti immediati del disastro siriano.
Il punto generale è che quest’area è stata, ed è tutt’ora, un’area calda di scontro strategico globale. Per motivi geografici, per motivi di risorse, e infine per scelta geopolitica.
Dunque il pericolo che rappresenta il Medio Oriente, e ora la Siria, va ben oltre quello degli effetti immediati della guerra civile nella zona, o anche per l’Europa.
La mia prima preoccupazione è come porre fine a questo ruolo di volano di un conflitto più ampio.
Anzi, direi che si può utilizzare questa crisi per fare progressi positivi in questo campo.
In parte lo stiamo già vedendo. E’ ora evidente che una certa strategia deve cambiare. La tattica di finanziare i fondamentalisti per motivi geopolitici ha mostrato tutti i suoi limiti e contraddizioni. La Casa Bianca l’ha capito, e sta cercando di andare in una nuova direzione.
Quindi si è aperta la possibilità di un cambiamento fondamentale nei rapporti Usa-Russia.
Non è poco importante. Negli ultimi anni sono aumentati di parecchio le tensioni tra Russia e gli Stati Uniti. Lo vediamo nelle politiche militari, per esempio con il potenziamento degli arsenali nucleari. Potete leggere nell’analisi sulla Russia all’interno del fascicolo che avete ricevuto, l’articolo scritto da Paolo Balmas che spiega l’escalation militare da entrambe le parti.
La cooperazione sulla questione siriana non significa che si risolvono i problemi in Medio Oriente. Anzi, crea anche degli effetti collaterali, come si può vedere nel recente scontro tra l’Arabia Saudita e l’Iran. Ma a livello complessivo è possibile cominciare a rimuovere le basi del processo che ha portato a questa situazione di conflitto tra le superpotenze. Nel frattempo ci vorrà molto per affrontare i disastri creati negli ultimi decenni.
Ci sarebbe tanto altro da dire, sul ruolo di Putin, sulle problematiche intorno al riavvicinamento con l’Iran, sulle implicazioni per l’Ucraina – il prossimo passo in questo processo diplomatico Usa-Russia – ma per concludere non posso che fare un cenno alla campagna elettorale americana.
Sì, perché ovviamente tutte queste cose di cui ho parlato, come l’analisi delle intenzioni di un presidente e le reazioni di altri paesi, cambieranno tra 9-10 mesi, quando ci sarà un nuovo presidente americano.
So che il tema è allettante ma dirò solo due parole sulle posizioni dei candidati rimasti in corsa.
Il dato più interessante è che 3 dei 5 candidati rimasti criticano fortemente gli interventi militari in Medio Oriente.
Si tratta di Bernie Sanders, Ted Cruz, e Donald Trump
Da Sanders non è una sorpresa, nonostante alcune incertezze su Israele e Arabia Saudita.
Cruz e Trump sono dei casi più interessanti. Infatti l’establishment politico americano è in grave difficoltà, perché si sono presentati due candidati nel partito repubblicano che non sostengono per nulla la politica estera repubblicana degli ultimi decenni.
Sia Trump che Cruz dicono che non dobbiamo intervenire nella guerra civile siriana, e che occorre lavorare con Putin.
Nonostante le parole grosse su come dobbiamo essere forti, utilizzare tutti i metodi a disposizione, i due outsider litigano sulla Libia, nel senso che entrambi vogliono essere noti per la loro opposizione a quella guerra!
Quindi abbiamo i candidati repubblicani che criticano Obama non perché è troppo debole – come fanno quasi tutti gli altri politici repubblicani – ma perché fa troppe guerre.
Ironicamente, sembrano più d’accordo loro con la svolta verso la diplomazia, che non Hillary Clinton.
Perché Clinton critica Obama da destra! Sostiene la No-fly zone, critica la mancanza di sostegno ai ribelli, promette fedeltà e amicizia a Netanyahu, e difende l’intervento per rimuovere Gheddafi, da molti definito Hillary’s War.
Intendiamoci: non voglio dire che possiamo fidarci di quello che dicono Trump e Cruz – sono personaggi un po’ particolari; ma le parole contano, e il motivo per cui adottano questa posizione – come le posizioni contro i trattati di libero scambio – è perché hanno capito che gli elettori sono stufi di avere dei rappresentanti politici che seguono tutti le stesse “regole del gioco” da tanti anni.
Dunque quello che succede fino alla fine dell’anno sarà molto importante, per influenzare il futuro. La strada davanti a noi sulla Siria rimarrà difficile, ma spero che nel frattempo si facciano ulteriori progressi nella cooperazione tra le più grandi potenze mondiali.
– Newsletter Transatlantico N. 28-2016
April 25, 2016
Interventi, Strategia