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JFK e l’escalation in Vietnam

April 29, 2011

Storia

Nell’anniversario dell’assassinio
del presidente Kennedy

Scegliamo di andare sulla Luna in questo decennio e di fare altre cose, non perché esse siano facili, ma perché sono difficili. Questa è la sfida che vogliamo accettare, che non vogliamo posticipare e che vogliamo vincere“, John F. Kennedy, 12 settembre 1962.

24 novembre 2010 – Quando si discute della necessità di una svolta economica e strategica nel mondo di oggi, è inevitabile fare riferimento ad alcuni personaggi storici che più di altri hanno avuto il coraggio di imprimere un cambiamento fondamentale nella politica del proprio paese. A me capita spesso di citare il grande presidente americano John F. Kennedy come esempio di uno che capi la vera posta in gioco e diede una dimostrazione di come liberarsi da una gestione geopolitica del mondo in cui alcuni gruppi sovrannazionali cercano di garantirsi un’influenza a favore dei propri interessi, piuttosto che del bene comune.

Tuttavia non è raro che qualche interlocutore metta in discussione l’effettiva volontà di cambiamento da parte di Kennedy, dicendo in particolare che fu proprio JFK ad indire l’escalation militare nel Vietnam. La mia sorpresa nel sentire questa obiezione scaturisce dal fatto che ormai la versione “ufficiale” sulla morte di Kennedy viene accettata da ben poche persone, e che quindi mi aspetto che anche le falsificazioni delle sue posizioni siano poco credibili. Le fonti che smontano le tesi della Commissione Warren sull’assassinio sono tantissime, e tanto ha fatto, a livello popolare, il film “JFK” di Oliver Stone, provocando una forte risposta nella popolazione americana. La discussione sull’assassinio tocca anche il punto del Vietnam, indicando come Kennedy non fosse affatto convinto di seguire il “complesso militare-industriale” – come lo definì il presidente ed ex-generale Dwight D. Eisenhower – nella lunga guerra geopolitica che avrebbe fatto così tanti danni umani e politici negli anni successivi.

Eppure l’escalation ci fu, e il disastro della guerra del Vietnam è ancora fresco nella mente della società, anche per via dell’evidente fallimento dell’intervento militare in Afghanistan di questi anni. Allora diventa importante chiarire la questione: il presidente Kennedy voleva davvero fermare la guerra in Vietnam? La risposta è indubbia: sì. Ma per capire come maturò questa decisione – disattesa nei fatti dopo la morte del presidente – occorre renderci conto di come un leader politico a quel livello debba affrontare un simile cambiamento di rotta.

Come sovente succede nella vita pubblica, non è facile prevedere in anticipo che cosa farà un personaggio politico una volta arrivato ad occupare una posizione di potere. Sono molti gli esempi di chi ha tradito le aspettative, o viceversa di chi si è rivelato all’altezza di un compito che sembrava fuori della sua portata. E soprattutto, non si può definire una persona solo in base alla propria posizione sociale e gruppo di appartenenza, perché si rischia di negare il ruolo fondamentale dell’individuo nella storia. Infatti John F. Kennedy veniva da una famiglia non proprio pulita: suo padre era noto per i legami con la malavita, la quale avrebbe garantito la vittoria di JFK comprando i voti a Chicago.

L’approdo di Kennedy alla Casa Bianca diede inizio ad una stagione di cambiamento innegabile. Però tale cambiamento non fu scontato, e si scontrò contro il grande ostacolo di una struttura di potere che non aveva alcuna intenzione di prendere ordini da un giovane presidente considerato inesperto ed ingenuo. Come documenta in modo molto dettagliato l’eccellente libro JFK di L. Fletcher Prouty – il vero Signor X nel film di Stone – l’orientamento della politica di sicurezza nazionale fu guidato da personaggi che si consideravano superiori al presidente, come ad esempio il direttore della CIA Allen Dulles. Il caso più eclatante, che alla fine diventò il primo passo verso una svolta nella presidenza Kennedy, fu l’invasione di Cuba alla Baia dei Porci.

Il piano per l’invasione era stato preparato prima dell’insediamento della nuova amministrazione: i rappresentanti delle agenzie di intelligence tracciarono prima i contorni dell’intervento e chiesero l’approvazione del presidente solo all’ultimo momento. Per via di un clamoroso errore di McGeorge Bundy – forse non si saprà mai se fu casuale o provocato intenzionalmente da qualcuno – l’invasione fallì provocando una figura disastrosa per gli USA. Da quel momento in poi Kennedy si rese conto di non essere davvero al comando e decise che era ora di imporre la sua volontà sulle istituzioni dello Stato. Il processo cominciò con un’indagine interna sul fallimento dell’operazione, e portò ad una riorganizzazione del funzionamento della squadra di sicurezza nazionale; il presidente riuscì a marginalizzare almeno in parte quelle figure che remavano contro il cambiamento da lui voluto.

Lo sbocco più importante del nuovo corso fu nella politica verso il Vietnam. Nel 1963 l’intervento americano in Vietnam era ancora interamente sotto l’egida della CIA; non c’erano truppe dell’esercito regolare USA nel paese. In qualità di “consiglieri” i reparti della CIA aumentarono in modo costante fino a rappresentare una forza imponente garantendo la fornitura massiccia di armamenti e in modo particolare elicotteri da guerra e i loro equipaggi. Di questo passo era inevitabile un coinvolgimento ancora maggiore degli USA, in quanto l’intervento stesso garantiva l’escalation della guerra. Furono spostati più di un milione di vietnamiti dal nord al sud del paese, che insieme alla fame e alla miseria in cui fu gettato il paese, grazie al conflitto, portarono a delle rivolte interne che vennero immediatamente considerate come la longa manus dei comunisti del Nord e della Cina. Non c’era alcun piano di vincere la guerra in senso classico, in quanto avrebbe richiesto un’invasione del Nord con il rischio di un numero enorme di morti americani e anche una potenziale risposta diretta da parte della Cina, minacciando un allargamento del conflitto a livello regionale o mondiale.

Quindi, mentre il paese veniva distrutto e si creavano sempre più nemici, il complesso militare-industriale riusciva a fornire sempre più armamenti, e i maestri geopolitici gioivano per le divisioni che garantivano una gestione delle relazioni internazionali tramite i conflitti. Quando il presidente Kennedy si rese conto dell’impossibilità di vincere la guerra in quelle condizioni, e anche della follia di crearsi nuovi nemici piuttosto che di cercare la cooperazione per lo sviluppo – come invece tentava di fare in altre zone del mondo – decise di cambiare strada. Ordinò una revisione della situazione in Vietnam per sostenere la sua decisione di cominciare il ritiro.

Nel suo libro, Prouty racconta come in realtà Kennedy fece preparare il rapporto a Washington dopo aver mandato in visita nel Vietnam coloro che in teoria avrebbero dovuto stenderlo – il Segretario della Difesa e il Capo di Stato Maggiore. Il presidente sapeva già quali conclusioni trarre, e non intendeva farsi influenzare da nessuno dei settori deviati della propria amministrazione. E infatti dopo la “consegna” del rapporto, e per l’esattezza l’11 ottobre 1963, firmò il Memorandum di azione sulla sicurezza nazionale (NSAM) n. 263, indicando la sua intenzione di iniziare il ritiro del personale americano dal Vietnam già lo stesso anno, e di concluderlo entro la fine del 1965. Poco più di un mese dopo, il 22 novembre 1963, venne assassinato. Quattro giorni dopo l’assassinio, il 26 novembre 1963, il neo-presidente Johnson, chiaramente sotto una pressione micidiale, firmò il NSAM n. 273, che cominciò già a cambiare la direzione indicata da JFK.

In conclusione, l’evoluzione di Kennedy sulla sicurezza nazionale, insieme all’impronta enorme da lui lasciata con il progetto Apollo della NASA e gli investimenti economici produttivi più in generale, fanno di lui un grande presidente. Quando JFK capì il funzionamento delle strutture del potere, decise di adoperarsi per il bene della nazione, pur sapendo di andare esplicitamente contro la posizione dei poteri forti. Per questo, nonostante la sua breve permanenza alla Casa Bianca – meno di tre anni – viene giustamente considerato uno dei migliori tra i presidenti americani.

I paralleli con il momento attuale della storia sono fin troppo evidenti: dal crollo dell’economia e il predominio degli interessi finanziari speculativi, alle manipolazioni geopolitiche che ci hanno abituato a guerre continue nelle zone calde del mondo. Finora i leader politici occidentali non hanno dimostrato la capacità di effettuare una svolta fondamentale rispetto alle politiche che continuano a rovinare l’economia reale e il tenore di vita di gran parte della popolazione, e che promettono anche nuove guerre nel prossimo futuro. Chi avrà il coraggio di sfidare i propri assiomi, e di lavorare davvero per garantire il progresso economico e sociale della società?

Andrew Spannaus

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