– di Paolo Balmas –
Il prezzo del petrolio è crollato di nuovo. Secondo l’indice texano Wti, il prezzo al barile supera di poco i 30 dollari. La colpa è soprattutto del coronavirus, che ha fatto registrare un calo dei consumi di petrolio in Cina pari a 4 milioni di barili al giorni (nel suo momento peggiore). Ma la colpa è anche della Russia e dei paesi Opec, che non sono stati capaci di siglare un patto per la diminuzione della produzione di greggio. Da qui, la guerra nucleare dei prezzi, come è stata definita dagli analisti di IHS Markit. L’Arabia Saudita ha abbattuto i prezzi del suo greggio il giorno seguente al fallimentare incontro Opec+ della scorsa settimana. A ciò si aggiunge il bando dei voli dall’Europa agli Usa annunciato dal presidente Trump. E si ritorna così al coronavirus.
L’intricato intreccio fra risorse e malattie, che secondo Jared Diamond (autore del libro “Armi, acciaio e malattie”) ha definito la storia del mondo e ha permesso ai popoli europei di imperversare sugli altri continenti per secoli, sembra ancora una volta determinare il destino dell’economia. Gli occhi sono tutti puntati sulla malattia, il coronavirus, ma il problema degli idrocarburi sembra ben più grave, soprattutto per le ripercussioni a lungo periodo. Si teme una crisi profonda del settore shale oil negli Usa. Un settore descritto, forse con eccesso, sull’orlo del precipizio e sul quale gli Usa hanno costruito la loro politica estera ed energetica degli ultimi anni.
Attualmente, gli Stati Uniti sono i primi produttori di greggio al mondo con una produzione di oltre 17 milioni di barili al giorno. Hanno raggiunto nel 2019 il 18% della produzione mondiale di petrolio, quando l’intera industria del Golfo persico rappresenta il 25% (Usa, Arabia Saudita, Iraq e Russia uniti superano il 50% della produzione mondiale). In altre parole gli Stati Uniti e i produttori del Golfo sono divenuti rivali sul mercato. In questo scenario si inserisce la Russia, il terzo polo della produzione mondiale di petrolio, che ha cominciato una corsa all’estrazione contro gli Usa e l’Arabia Saudita. Per sostenere il prezzo del greggio, i paesi Opec e la Russia hanno stretto un’alleanza nel 2017, con un taglio alla produzione.
La scorsa settimana l’obiettivo per l’Opec e la Russia (ma non per gli Usa) era di ridurre ulteriormente la produzione per continuare a sostenere il prezzo del greggio colpito dalle misure straordinarie prese per arginare la diffusione del coronavirus. La Russia ha rifiutato la proposta, dicendo di voler prolungare l’accordo ma senza tagli maggiori a quelli già pattuiti. Alla posizione della Russia, l’Arabia Saudita ha risposto con un abbattimento dei prezzi ai suoi clienti in Europa e negli Usa. Sul fronte del mercato, è paragonabile allo scoppio di una guerra mondiale dopo il fallimento di un summit. Gli indici, Wti e Brent, sono crollati e con loro il valore delle grandi imprese petrolifere quotate sui maggiori mercati.
Le accuse contro la Russia si diffondono. La percezione generale è che la manovra di Mosca sia diretta a colpire i rivali statunitensi, che risentiranno del colpo sferrato perché sarebbero già in crisi. Lo straordinario sviluppo della produzione americana di greggio ha bisogno di nuovi spazi sul mercato. Negli ultimi cinque anni, le esportazioni di greggio Usa sono passate da poche decine di migliaia di barili a circa 4,5 milioni di barili al giorno. Si tratta di un cambiamento radicale per il mercato degli idrocarburi e per l’economia mondiale. Fino a oggi, Washington ha trovato spazi di mercato grazie alle crisi che hanno colpito grandi produttori come Libia, Venezuela e Nigeria, e in parte grazie alle sanzioni alla Russia e all’Iran o ai ritardi di altri paesi produttori come ad esempio il Messico.
Sul fronte della produzione gli Usa hanno battuto tutti. Per quanto riguarda le esportazioni la situazione è diversa. L’Arabia Saudita esporta circa il doppio del petrolio, con 9 milioni di barili al giorno. La Russia ne esporta circa 5 milioni. Date le condizioni attuali, l’Arabia si sta muovendo per non perdere nemmeno la più piccola porzione del suo mercato, mentre Russia e Stati Uniti si giocano il secondo posto di fornitori di greggio a livello mondiale. L’industria del petrolio è in perdita, ma la posta in gioco è talmente alta che giustifica la crisi attuale e i rischi che comporta.
È stato calcolato che il break-even al barile per la Russia è di 42 dollari e che le riserve di Mosca possono sostenere un mercato come quello attuale per un periodo compreso fra i cinque e i dieci anni. Sull’altro fronte c’è il presidente Trump che ha detto al mondo che gli Usa hanno raggiunto l’autosufficienza energetica. In entrambi i casi, sembra non si tenga conto di quanto le economie siano profondamente interconnesse e il crollo di una parte rischia di trascinare tutto il resto. Crisi politiche, guerra nucleare dei prezzi, misure straordinarie contro le malattie. Gli elementi sono talmente ben miscelati che nemmeno un antico alchimista sarebbe stato capace di tanto. Nel momento meno opportuno si sprigiona un virus. Il suo effetto è devastante, ma può risultare ancor più devastante l’uso che facciamo del suo effetto per incidere su altre questioni, presumibilmente per risolverle.
– Newsletter Transatlantico N. 8-2020
March 13, 2020
Economia