– di Andrew Spannaus –
Negli Stati Uniti – e non solo – la politica dell’identità è cambiata, è diventata volatile: sui fattori etnici, culturali o religiosi prevalgono le preoccupazioni per la situazione economica, la precarietà e le incertezze generate dalla globalizzazione. Vince le elezioni chi promette il cambiamento rispetto a un sistema ingiusto che non tutela la maggioranza della popolazione. Le implicazioni per l’elettorato repubblicano e per la strategia dei democratici.
Articolo pubblicato in Aspenia 83 “Il secondo tempo di Trump”, pubblicato da Aspen Institute Italia, December 2018. www.aspeninstitute.it
La crisi finanziaria del 2007-2008 rappresenta uno spartiacque nella politica americana recente, il momento in cui l’idea della “politica dell’identità” (identity politics) ha cominciato a cambiare. Da allora, è diventato più difficile definire gli elettori in base al gruppo etnico, al genere, o ad altre caratteristiche demografiche, nonostante la tentazione diffusa di continuare a farlo. La risposta dei cittadini a grandi temi come la globalizzazione, le guerre e la corruzione è più trasversale che mai nella storia recente, relegando a una posizione secondaria le wedge issues, le questioni che per decenni hanno diviso i cittadini su basi culturali.
Questo cambiamento può sembrare quasi un controsenso nell’era di Trump: il presidente agita lo spauracchio degli immigrati e dei criminali che vengono dall’estero, e si parla spesso dell’importanza per i repubblicani del voto degli “uomini bianchi arrabbiati”. Eppure, a guardare sotto la superficie vediamo che i temi che più stanno a cuore ai cittadini sono in buona parte quelli legati all’economia, anche se a volte indirettamente: il costo elevato della vita, la precarietà, la mancanza di certezze – e anche di identità – in un mondo in trasformazione. Sono gli effetti della globalizzazione che provocano una rivolta degli elettori, non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo occidentale. Pur nelle aspre divisioni politiche che si registrano in questi tempi, ciò che unisce può diventare più importante di ciò che divide; ne consegue la necessità di ripensare gli allineamenti politici per evitare di commettere gli stessi errori degli ultimi tre anni: sono errori che hanno portato la classe dirigente a sottovalutare il disagio nella società, aprendo un divario tra le istituzioni e vasti strati della popolazione, con rischi notevoli per la coesione sociale.
IT’S THE ECONOMY STUPID! ANCHE PER I REPUBBLICANI
L’importanza di fare campagna elettorale sui temi economici non è certamente una novità. È celebre la battuta di James Carville – “It’s the economy, stupid” – per spiegare il focus della retorica politica di Bill Clinton. La differenza oggi è che la divisione destra/sinistra negli Stati Uniti – in passato sinonimo della contrapposizione tra liberisti e progressisti – sta cambiando. Mentre cresce l’importanza dell’ala “socialista” del partito democratico, dall’altra parte dello spettro politico le carte sono state completamente sparigliate. Nel 2016 la dirigenza del gop, da decenni partito del business contrario all’intervento statale, è stata sonoramente battuta da un candidato che s’è scagliato contro il libero mercato, invocando il protezionismo e anche promettendo di non tagliare Medicare e Medicaid, pur sposando la consueta critica dei repubblicani all’Obamacare.
È interessante notare che anche laddove i repubblicani sono più “statalisti” – in campo militare –Donald Trump ha preso una posizione per certi versi opposta, promettendo la fine di inutili guerre in Medio Oriente per poter investire i soldi “sprecati” all’estero nell’economia americana.
Battendo altri 16 candidati nelle primarie repubblicane, Trump ha dimostrato che l’elettore medio del partito non è in realtà legato alle “ricette” politiche dei propri rappresentanti. C’è un’affinità a livello ideologico, ma quando quell’affinità si confronta con la realtà della vita quotidiana, prevalgono facilmente le preoccupazioni per la seconda. Questo non significa che l’attuale presidente sia “di sinistra”; ma presentandosi come un conservatore a livello ideologico mentre enfatizzava temi molto vicini alla gente, è riuscito a mettere in grave crisi un establishment che per anni aveva mantenuto posizioni economiche che evidentemente non riflettevano gli interessi della propria base.
Nel periodo precedente – segnatamente negli anni 2000-2004 – una parte importante dell’elettorato repubblicano era stato mobilitato grazie alle wedge issues dell’aborto e del matrimonio gay. L’attenzione a quest’ultimo, attraverso la promozione di ben 11 referendum a livello dei singoli stati in coincidenza con le elezioni presidenziali, fu forse l’elemento decisivo nella riconferma di Bush figlio, considerando il sottile margine di vittoria nel 2004 in Ohio, uno degli stati in cui si teneva un referendum sulle unioni omosessuali.
Sicuramente l’aborto e i diritti lgbt hanno ancora un peso importante per alcuni elettori, ma i sondaggi dicono che in cima alle preoccupazioni degli elettori sono le questioni economiche, a partire dai costi della sanità. Ormai, le questioni culturali non fanno parte neanche delle prime dieci in classifica.
Oggi vince chi riesce a convincere i cittadini che darà battaglia contro le forze di una società disuguale e ingiusta, un sistema politico in cui Wall Street e i grandi capitali la fanno da padrone, creando l’impressione che la classe dirigente pensi solo a se stessa e ignori le istanze della gente comune. Lo ha fatto appunto Donald Trump nel 2016, come lo aveva fatto Barack Obama nel 2008: allora lo scoppio della grande crisi finanziaria permise al candidato afroamericano di sfruttare la rabbia e la preoccupazione dei cittadini per la situazione economica, portando a un risultato che, ragionando in termini di identità più stretta, non sarebbe dovuto avvenire.
Si sono spesi fiumi d’inchiostro – reale e virtuale – sulla reazione degli americani bianchi all’elezione di Obama, sia negli anni immediatamente successivi al voto, sia nel 2016. Si tratta di un’esagerazione, un tentativo di ricondurre lo scontro su binari più familiari, mentre in realtà l’allineamento politico è più semplice: vince chi promette il cambiamento rispetto a un sistema che non sta funzionando per la maggioranza della popolazione, riuscendo a superare i pregiudizi che sicuramente esistono, ma che gli elettori sono in grado di dimenticare velocemente. I numeri dicono che 7-9 milioni di americani che avevano votato per Obama hanno poi votato per Trump otto anni dopo. Svariati ricercatori sostengono che chi ha seguito questo percorso presenti livelli più alti della media di ostilità razziale e di xenofobia[1], e ne deducono che la razza abbia svolto un ruolo più incisivo rispetto ad altri fattori.
È un’argomentazione in realtà contraddittoria: si dice che Trump ha “sdoganato” il fattore razzista, punto difficile da contestare per quanto riguarda la sua retorica sugli immigrati; ma paragonando il 2008 e il 2016, secondo questa tesi molti elettori avrebbero dimenticato momentaneamente di essere razzisti quando hanno votato per Obama. Anche se fosse vero, sarebbe comunque una dimostrazione del carattere relativo della politica dell’identità. Se le preoccupazioni per la crisi finanziaria hanno prevalso sulle considerazioni razziali – anche solo temporaneamente – allora si capisce che queste considerazioni non sono sempre primarie; possono cambiare se un candidato riesce a fare leva in modo efficace su altri interessi.
La dimostrazione dello stesso principio, ma in negativo, viene dalle elezioni di midterm del 2018. Soprattutto nelle ultime settimane della campagna, il presidente ha deciso di concentrare i suoi interventi sulla questione dell’immigrazione, sventolando il pericolo della famosa carovana di migranti in viaggio dall’Honduras. La strategia ha sostanzialmente fallito. Trump puntava chiaramente a mobilitare la propria base per colmare il gap di entusiasmo tra repubblicani e democratici. Questo obiettivo era stato già parzialmente raggiunto durante la battaglia (vinta) sulla nomina alla Corte suprema del giudice Brett Kavanaugh, e il presidente sperava di andare oltre rispolverando uno dei suoi temi apparentemente più efficaci. I primi dati, però, indicano che non ha funzionato; molti indipendenti sono stati anzi allontanati dall’aspra retorica dei repubblicani.
Si potrebbe attribuire questo risultato a una maggiore consapevolezza dell’elettorato, che non crede più a un presidente che si è dimostrato poco affidabile nei primi due anni del suo mandato. Però si ripropone qui la stessa contraddizione vista sopra: indicare la razza, e quindi l’identità in senso stretto, come il fattore dominante nelle campagne politiche significa affermare che milioni di cittadini abbiano vissuto un momento antirazzista nel 2008, siano tornati a essere razzisti nel 2016, e poi nel 2018 abbiano cambiato direzione un’altra volta. È tutto possibile – ed è assolutamente innegabile l’esistenza di pregiudizi razziali nella società americana, ma vale quanto detto prima: questi pregiudizi non sono necessariamente dominanti e scivolano in secondo piano, o anche più indietro, quando i candidati riescono a trasmettere un messaggio efficace che faccia appello al disagio degli elettori in altri ambiti.
QUALE STRATEGIA PER I DEMOCRATICI?
Nel 2016 uno degli errori più grandi degli strateghi democratici, e degli analisti dei media, è stato quello di immaginare che certi gruppi – quali gli ispanici, i neri e le donne – avrebbero sostenuto Hillary Clinton con margini schiaccianti. Non è stato così, o perlomeno i voti ricevuti non sono stati sufficienti a consegnarle la vittoria. La strategia di Clinton che contava sul rigetto di Trump da parte di vari sottogruppi della popolazione ha fallito, anche quando quegli elettori erano stati oggetto di attacchi e insulti da parte del candidato repubblicano. Alla fine, Clinton ha ricevuto decisamente meno voti del previsto tra gruppi come gli ispanici e anche tra le donne. L’idea di mettere insieme una coalizione di vari gruppi sociali per sconfiggere chi parlava principalmente agli uomini bianchi di una certa età non ha funzionato.
Lo stesso problema è evidente oggi dopo le midterms del 2018. I democratici hanno vinto; l’onda blu c’è stata, seppur non certamente a livelli storici.
Infatti, lo spostamento del voto popolare per la Camera dei Rappresentanti è stato di circa 8 punti percentuali, appena un punto oltre la media degli ultimi settant’anni.
La sfida per i democratici per affinare la loro strategia per i prossimi anni è nell’analisi del voto. Se l’identità in senso stretto è il fattore dominante, allora basterà proseguire nella strategia di una coalizione di “tribù”, che inevitabilmente diventerà imbattibile con la crescita della diversità della popolazione. Se, invece, queste diverse identità non sono garanzia di un voto a larga maggioranza democratica, ma possono essere sovrastate da altri temi, allora la strategia deve cambiare.
Questo secondo scenario sembra verosimile. Mentre la diversità dei candidati democratici è aumentata in modo significativo – con più donne, membri di diversi gruppi etnici e rappresentanti lgbt – la campagna elettorale di questi candidati si è concentrata non sulle wedge issues, ma sulle pocketbook issues: l’accesso alle cure sanitarie, il costo dei farmaci, l’aumento del salario minimo. Se negli stati del profondo sud candidati afroamericani come Lucy McBath in Georgia e Colin Allred nel Texas possono vincere nei sobborghi, in distretti dove meno del 15% della popolazione è nero diventa evidente che è il contenuto che fa il candidato; c’è da capire cosa funziona nel chiedere il voto ai cittadini, non dividere i distretti elettorali in buoni e cattivi, cosmopoliti e reazionari.
L’IDENTITA’ IN UN MONDO GLOBALIZZATO
L’identità è una questione importante, ma occorre definire meglio il significato del termine. Identificare le tendenze di certi settori della popolazione è utile e istruttivo, ma gli esseri umani non sono degli automi. L’identità di una persona non si esaurisce nel colore della pelle, e nemmeno nell’orientamento sessuale. Una delle “contraddizioni” più note è quella degli ispanici negli Stati Uniti, molti dei quali sono immigrati relativamente recenti. Questo cosiddetto gruppo etnico spesso non vota come vorrebbero gli strateghi democratici per vari motivi, dall’estrazione religiosa all’orgoglio di essersi conquistati la propria posizione negli Stati Uniti seguendo le regole e le leggi. In sostanza, l’identità di un immigrato presente negli Stati Uniti da qualche anno non necessariamente è uguale a quella del migrante appena arrivato.
Per allargare il discorso e collegarlo alla discussione sui temi economici, occorre considerare l’identità dei cittadini in un mondo globalizzato. La trasformazione post-industriale della società americana, la riduzione delle attività produttive, l’incertezza che accompagna la precarietà del lavoro hanno cambiato il senso di appartenenza di molti americani.
In passato, il lavoratore del Midwest si sentiva parte di una grande macchina produttiva, in un paese guida a livello mondiale che si basava su una comunità di forti valori etici.
Non bisogna sottovalutare il colpo dato dalla globalizzazione, e soprattutto dalla finanziarizzazione dell’economia, a questo orgoglio e senso di appartenenza. Ce lo ricordano i temi che si sono rivelati più efficaci nelle campagne elettorali del 2012 e del 2016. Mitt Romney fu fortemente danneggiato dal suo ruolo di dirigente della compagnia Bain Capital, responsabile di varie ristrutturazioni aziendali. Il cosiddetto spot televisivo “coffin”, in cui un lavoratore raccontava di come Romney e la sua società avessero guadagnato più di 100 milioni di dollari con la chiusura di una fabbrica in Ohio, fu devastante. Nel 2016, invece, il focus di Trump sul caso della Carrier in Indiana, che aveva annunciato un piano per spostare la produzione in Messico, contribuì a definire la sua battaglia a favore della manifattura americana.
“Make America Great Again” può sembrare uno slogan banale, ma per milioni di persone evoca un’idea degli Stati Uniti che si contrappone alle difficoltà della società globale di oggi, con le sue pressioni e i suoi sconvolgimenti che non forniscono tutele adeguate per la maggior parte della popolazione. Lo slogan è associato personalmente a Donald Trump, ma sarebbe un errore pensare di poter ignorare il messaggio essenziale: in un mondo dove il benessere e le certezze dei cittadini sono stati erosi da un sistema che privilegia gli interessi di pochi, l’identità di un popolo, che richiama le caratteristiche positive del proprio paese, è un fattore in grado di cambiare gli schemi politici, diventando più importante della politica dell’identità in senso più stretto.
[1] Si veda per esempio Tyler Reny, Loren Collingwood, Ali Valenzuela, “Vote switching in the 2016 election: racial and immigration attitudes, not economics, explains shifts in white voting,” in uscita sul Public Opinion Quarterly.
– Newsletter Transatlantico N. 4-2019
January 28, 2019
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