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Il non-boom dell’economia americana

July 7, 2014

Economia, Notizie

Nel primo trimestre del 2014 il Pil americano è sceso del 2,9% secondo la stima rivista dal U.S. Bureau of Economic Analysis (Ufficio di analisi economica) pubblicata qualche giorno fa. Il dato iniziale del 30 aprile indicava una crescita dello 0,1%, provocando già molte preoccupazioni rispetto alle attese che da tempo parlano di una grande ripresa negli Stati Uniti.
Tra i fattori citati per il rallentamento ci sono il calo delle esportazioni e degli investimenti, da molti attribuito ad un inverno più rigido del solito. Tuttavia i democratici si sono precipitati a rivendicare l’importanza del contributo che la riforma sanitaria avrebbe dato al Pil, in quanto si stimava che senza l’acquisto delle nuove polizze sanitarie offerte attraverso il sistema di Obamacare il Pil sarebbe stato negativo di oltre l’1%.
Vista da oggi la situazione è ben diversa. Infatti è importante ricordare che i dati economici si basano su delle estrapolazioni statistiche che di regola più sono immediate, meno sono precise. Per esempio il nuovo dato indica che la spesa sanitaria in realtà è diminuita dell’1,4%, rispetto alle previsioni originali di un aumento di oltre il 9% della stessa. I motivi – che dovevano essere evidenti anche prima – sono: 1. il termine di pagamento di gran parte delle nuove polizze non era ancora scaduto alla fine del primo trimestre; 2. il costo di molte nuove polizze è basso, in quanto rappresentano soprattutto una garanzia contro malattie gravi, in cambio di franchigie alte per i consumatori. Uno degli obiettivi principali della riforma è proprio quello di abbassare i costi, un aspetto che provoca non pochi problemi considerando la necessità di accogliere milioni di nuovi assicurati in un sistema che ha bisogno di aumentare le proprie strutture e curare chi per anni non è stato assicurato.
Il dato negativo per il primo trimestre ha provocato qualche riflessione negli Stati Uniti in questi giorni sulla natura della ripresa, che per motivi politici si è voluta sbandierare già dalla metà del 2009. Intanto l’economia è stata “stimolata” attraverso l’infusione di massicce quantità di liquidità nel mercato finanziario, da una parte, e con misure fiscali temporanee dall’altra. E’ evidente che i consumatori americani sono ancora molto cauti e poco fiduciosi in merito al futuro. Non deve sorprendere, visto che i nuovi posti di lavori che vengono creati sono meno pagati e più precari che in passato; e l’aumento medio di 200 mila posti al mese – confermato pochi giorni fa con le stime positive per il mese di giugno – è circa la metà di quello che servirebbe per far fronte ai bisogni della forza lavoro. Inoltre il deficit commerciale continua ad aumentare, il che significa meno produzione (e meno domanda di lavoro) a livello interno.
Un dato negativo non vuol dire per forza che è iniziato un nuovo tonfo, ma aiuta a capire che occorrono misure che vadano oltre la strategia della liquidità sui mercati. Dallo scoppio della grande crisi la struttura dell’economia non è cambiata in modo fondamentale, e dunque permane il gap tra il mondo della finanza e quello dell’economia reale. La teoria del trickle-down dice che un aumento del reddito di chi è più benestante prima o poi porterà dei benefici per l’economia intera. Negli ultimi decenni però i salari reali non sono cresciuti e la povertà è aumentata, dunque anche un aumento del Pil – sicuramente preferibile ad una contrazione – non porta i benefici promessi. Servirebbe invece un intervento più deciso per aumentare gli investimenti produttivi e dare luogo ad una crescita più solida.

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