(free) – di Paolo Balmas –
Il 9 maggio 2016 si sono svolte le elezioni presidenziali nelle Filippine. Le proiezioni, sin dalle prime ore del 10 maggio, hanno dato per vincente Rodrigo Duterte, soprannominato il Trump delle Filippine.
Il nomignolo non sembra appropriato, se non per il fatto che i due condividono il carattere populista delle rispettive campagne elettorali. Duterte è da più di venti anni il sindaco di Davao, una città di un milione e mezzo di abitanti nella regione meridionale del Mindanao. In questi due decenni, Davao da centro della criminalità e dei traffici illegali è divenuta una meta turistica, nonché una delle città più sicure al mondo.
Il metodo utilizzato da Duterte per combattere la criminalità è quello dell’esecuzione. A quanto si dice, ha eliminato fisicamente spacciatori e contrabbandieri dalla sua giurisdizione. Centinaia di persone. Ed è ciò che promette di fare a livello nazionale, a tal punto che avrebbe dichiarato nei giorni passati in più occasioni, che le Filippine hanno bisogno di nuovi obitori e non più di prigioni. Il popolo filippino lo sostiene.
La posizione interna di Duterte è forte. Evidentemente, ha goduto dell’appoggio di industriali e imprenditori che vogliono mettere fine ad annosi problemi di sicurezza, prima che l’economia mondiale ricominci a crescere. Infatti, Duterte è l’uomo che potrebbe trovare una soluzione sia al contrasto con i gruppi armati comunisti che con i fondamentalisti islamici, che rappresentano le principali fonti di potenziale instabilità del paese.
Sul fronte della politica internazionale, invece, Duterte si è avventurato in un terreno scivoloso. Dichiara di voler risolvere gli attriti con Pechino in relazione alle acque contese del Mar cinese meridionale. Il fine ultimo è quello di riavvicinarsi alla Cina per attrarre gli investimenti necessari a sviluppare le infrastrutture su territorio nazionale.
Le Filippine sono legate agli Stati Uniti da un trattato di cooperazione militare e ciò rende difficile a Duterte di avanzare posizioni politiche nei confronti della Cina, soprattutto sul fronte delle acque e delle isole contese. Oltre a Washington, anche le altre grandi potenze dell’area, Giappone e Australia, che stanno rafforzando la politica di contenimento contro Pechino, si pronunceranno sulla politica estera di Duterte.
La situazione generale lascia pensare che il Trump delle Filippine sarà costretto a trovare dei validi compromessi per adattare le promesse della campagna elettorale alle decisioni nei confronti della Cina. Ma anche sul fronte interno sarà costretto a ridimensionare le proprie intenzioni, poiché gli alleati attuali sono notoriamente restii a stringere rapporti troppo stretti con chi viola i diritti umani alla luce del giorno.
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May 18, 2016
Notizie, Politica